domenica 15 aprile 2012

Recensione dell'album "Dentro ogni casa" di Pacifico

Considerazioni sull’album “Dentro ogni casa”
Quest’album mi ha rivelato un Pacifico in parte nuovo, con una voce nettamente migliorata nelle prestazioni (come dice lui stesso sta riuscendo a stanarla e pian piano fa capolino) e, per così dire, una doppia anima: mentre in alcuni pezzi come "tu che sei parte di me" e "verrà l'estate" predomina la melodia chiara e piacevole con la voce che si accorda con pianoforte o chitarra, a cui Pacifico ci ha abituato, in altri ("un ragazzo", "sembri una foglia") si ripetono poche note sempre uguali con l’effetto di avvicinare la musica al parlato, espediente tipico delle canzoni di argomento più grave e malinconico. Certamente per comprendere questo splendido lavoro sono necessari parecchi ascolti attenti, e non si può scindere la melodia dai testi insieme a cui è cucita, poiché aggiunge espressività alle parole ed a volte fornisce la chiave di interpretazione delle canzoni. Un suono di violini unito ad un tintinnio di bicchieri apre la canzone iniziale “Dove comincia tutto” e ci fa entrare da subito nell’atmosfera dell’album, dentro ogni casa che significa dentro ciascuno di noi, in un viaggio alla ricerca dell’innocenza prima, che ci accomunava tutti quando ancora non eravamo usciti nel vasto mondo; facile identificare questo passaggio con l’infanzia, ed infatti Pacifico inserisce varie immagini ad essa legate, “...i tuoi singhiozzi, le sbucciature,/ i guanti fradici a scavar la neve,/ un solo soffio per le candele”; periodo di incoscienza e di giorni felici dal quale però è naturale che usciamo e negli anni successivi ci è dato solo ricordare, magari con un po’ di nostalgia ma senza alcun rimpianto. E per tornare laggiù dove comincia tutto è necessario spingersi con lo sguardo molto in profondità nei propri ricordi, perché è da una grande distanza che vorremmo arrivare “giù dove sei sempre stato,/ prima di alzare intorno una montagna”. In questa canzone Pacifico dimostra di non essere schiavo della metrica, di darle importanza ma non eccessivamente, e di non sacrificare altri elementi per salvarla: nell’inciso, dove compare lui stesso nell'atto di sprofondarsi nel suo passato, le rime sono molto regolari, coppie di versi a rima baciata, mentre nelle strofe, che contengono lo scenario di vecchi oggetti e memorie da cui è circondato, non si può individuare uno schema rigido: le rime sono sostituite da assonanze (neve candele) o da una semplice affinità tra il suono delle parole nella stessa posizione. Questa libertà metrica si accentua in quei brani in cui il tono si fa più prosaico e vicino a quello di un racconto, senza un ritmo regolare; Pacifico non trascura di accompagnare a questi testi una melodia che trasmetta lo stesso effetto.
“Un ragazzo” è da entrambi i punti di vista canzone frammentata, asimmetrica nella successione dei temi che non si ripetono quasi mai allo stesso modo, caratterizzata da inconcinnitas, con quelle note uguali che si susseguono martellanti, e queste peculiarità ben si accordano con la situazione drammatica ed i personaggi immobili descritti nel testo nonché con le percussioni ed i fiati dell’arrangiamento, che forse non a caso in concerto è stato l’unico ad essere mantenuto quasi identico al disco. Da pochi minuti c’è stato un incidente stradale ed un ragazzo ha appena perso la vita; il suo corpo è disteso su un freddo tavolo di alluminio sotto gli occhi dei genitori e dell’autore/testimone, che osserva la scena come in disparte, da esterno. Non usa mezzi termini (“Un ragazzo è morto”), le sue parole sono mera descrizione o elencazione di azioni compiute dai personaggi o di oggetti, che lo inducono a far congetture su quella famiglia che non conosce e suscitano pensieri e considerazioni nella sua mente vigile. L’atteggiamento impietrito dei genitori lo fa riflettere su come la morte si rifiuti di farsi comprendere, almeno nei primi momenti in cui è proprio sotto lo sguardo di chi ne è toccato da vicino: sembra quasi una quiete e non spaventa, fanno molta più paura gli istanti in cui ancora sembra di udire il rumore dell’incidente e il corpo palpita di vita appesa ad un filo; saranno dei piccoli particolari, enumerati alla fine del brano, a dare a quei genitori la certezza della realtà terribile che mentre guardano il corpo del figlio non è ancora chiara: l’impossibilità di chiedere un suggerimento perché non si avrà risposta, il silenzio non interrotto dal suono del citofono o dal rumore della porta che lui sbatte uscendo di corsa incontro agli amici che lo aspettano, i suoi oggetti personali ormai inutili. A tali fatti i genitori non possono sfuggire, sono davanti a loro spietati e indubitabili; l’arte di Pacifico è riuscita a fare in modo che anche davanti a noi ascoltatori questi dettagli appaiano con la loro implacabile crudeltà e colpiscano la nostra immaginazione.
Per quanto riguarda l’aspetto più riflessivo e poetico dell’album, alcuni pezzi già nel titolo contengono una similitudine o metafora, e coerentemente i testi sono saturi di immagini che rendono le descrizioni evocative e mai banali, anche se ritraggono quadri di vita e sentimenti non certo irripetibili, anzi che tutti noi possiamo aver visto o sperimentato. Tra queste “Sembri una foglia” racconta lo stato di una ragazza in preda alla malinconia, che si è arresa alla prepotenza della vita: l’inizio è parlato ed è una descrizione dell’autore/testimone di ciò che vede, una ragazza dall’aspetto dimesso all’interno di una stanza spoglia che rappresenta tutto il suo ristretto orizzonte; la descrizione continua nella prima strofa cantata, ma l’autore intreccia dettagli visivi, movimenti ed espressioni della ragazza, e sue osservazioni personali suscitategli da essi; la struttura del brano in una sorta di climax ascendente culmina nell’inciso, o meglio in quel tema melodico che ritorna più spesso, composto interamente da immagini a cui Pacifico accosta quella ragazza: una foglia al vento, una vela leggera, una piccola barca alla deriva in mezzo ad una bufera, che tutte hanno in comune l’essere abbandonate all’arbitrio di una forza esterna. Nella seconda strofa Pacifico sposta lo sguardo contemporaneamente fuori dalla stanza e indietro nel tempo, per raccontare un passato in cui la ragazza riusciva ancora a vivere, pur se tormentata da un senso di insicurezza generale ed immotivata che perdurava, come sottolinea il continuo ricorso all’imperfetto; poi il brusco passaggio al passato prossimo, azioni momentanee ed improvvise, una caduta, una doccia bollente, uno strappo e poi più niente: quel momento ha segnato la rinuncia a qualunque decisione autonoma, ormai l’unico flusso certo in lei è lo scorrere del sangue nelle vene. Non è specificato cosa sia realmente accaduto, è costume di Pacifico scrivere canzoni che si adattano ad una pluralità di contesti. Verso la fine del brano si avverte con chiarezza l’antitesi tra dentro e fuori, tra spazi aperti e chiusi, tra il senso di resa totale in quella stanza e in quella persona e la vivacità della vita che resta chiusa fuori. In tutta la canzone è insistente il ricorso alle figure di suono (omeoteleuti, rime, assonanze) come se le parole contenessero una partitura autonoma e con un suo senso; nell’inciso le vocali e le consonanti sono quasi sempre le stesse mentre si moltiplicano le metafore (“sembri una foglia, una vela leggera”, “Sembri di sfoglia, di tela leggera”): sembra che l’autore voglia conservarne un ordito fonico fisso, variando la trama con pochi tocchi che però la modificano sensibilmente.
Pacifico non è nuovo a scrivere canzoni sul flusso del tempo, con successioni di ricordi che danno l’impressione di sfogliare un album di fotografie accompagnate però dalla musica e dai profumi di ogni momento. Tale è ad esempio “Lento”, insieme di pagine di vita rievocate nella calma di una notte autunnale, anche qui senza contorni definiti, ed il ripercorrerle gli dà una sensazione vaga e indistinta del passare del tempo perché “...quel che ho lasciato è qui con me”; questa frase non può non evocarne una simile, seguita subito dall’immagine dell’elefante che incede col suo passo ciondolante e dal profilo generoso descritto e paragonato a Pacifico stesso in “Dolci frutti tropicali”: “...e divento pesante quanto più mi allontano e quel che lascio mi è sempre vicino”. Pacifico sente infatti che ogni istante non solo aggiunge qualcosa alla sua memoria ma si aggiunge alla sua persona, e per questo anche quando lo avrà lasciato non gli sembrerà mai lontano, nonostante la corrente del tempo lo trascini avanti inesorabile (“...e si va”); no, mentre gli sfilano davanti quei sogni e ricordi imprecisi il tempo “è come un treno lento lento lento”. In questa canzone dalla melodia dolcissima ed intensa interpretazione, proprio perché le pagine sono imprecise ed accennate, ognuno di noi può scriverle del tutto o in parte come crede: in quante circostanze la strada davanti a noi ci è apparsa in salita, o abbiamo sentito scivoloso l’asfalto sotto i nostri piedi. Ma la frase che ritrae con sintesi mirabile e cogliendo dritto nel segno una situazione che più o meno consapevolmente tutti abbiamo vissuto è “...e confidarsi al cuore, ai maghi, ai santi, a pochi amici,/ chiedendo solo un istante in cui non manca niente”: un momento in cui ci sia dato di aprirci per condividere pensieri e sentirci aiutati e confortati, l’assaporare appieno la speranza di un rimedio duraturo ai nostri mali; è solo un istante ma non sappiamo dimenticarlo perché ci appare come il primo rimedio.
Da Pacifico stesso definita canzone al rallentatore è "senza respirare", con una melodia formata da una sequenza di poche note che si susseguono tranquille ripetuta quattro volte, e accompagnata solo dal suono del pianoforte e della tromba. L'atmosfera è quella giusta dei sogni, le parti strumentali con protagonista la tromba rendono vive le sensazioni trasmesse dalla voce e invitano a dilatarle nel tempo, l'impressione complessiva è di distesa tranquillità; ed infatti proprio di un sogno si parla, il più comune e più privato, potersi allontanare dal mondo e volare senza regole né pericoli in compagnia della persona amata, col fiato sospeso ma non per la tensione, bensì per l'immersione totale in quella gioia schietta che dà quasi un senso di apnea. Come tutti i sogni anche questo è destinato a svanire con il risveglio, ma allo sguardo dell'autore, che passa in rassegna la sua storia attraverso il volgere degli anni, la realtà non appare poi così distante da esso: "...ho soltanto noi due e lo dico senza respirare".
Di un sogno finito, che ormai senza incertezze si può chiamare illusione, racconta "nel fuoco acceso del cuore", canzone che ha per tema una storia ormai alle spalle ("un soffio sulla cenere"), ma la fiamma del sentimento è ancora viva nell'angolo più nascosto del cuore, tanto profondo da sfuggire al nostro controllo. Anche qui la descrizione della realtà è affidata alle strofe mentre l'inciso armonioso e ben orchestrato si ferma sullo stato del cuore: in entrambi gli incisi è significativa la sospensione che crea il periodo ipotetico incompleto fino a metà, soprattutto nel primo è come se quella sicurezza delle strofe nell'affermare che la storia è ormai conclusa venisse meno e prevalesse il desiderio di far rivivere quei sogni spenti in cui con l'amata si alzava al di sopra del paesaggio e degli uomini, come in "senza respirare"; nel secondo appare più chiaro il senso di smarrimento, come di un bambino in un locale buio, e si accenna alla persona amata che forse non ne è consapevole e riesce a vivere questo passaggio con maggiore distacco ("tu che non sai di restare/ nel fuoco acceso del cuore"). Si avverte chiaramente in questo brano, accompagnato dagli archi e da una batteria leggerissima, il progresso della vocalità di Pacifico, che fin dal primo ascolto risulta sorprendente.
La canzone che ha anticipato quest'album nelle radio è "tu che sei parte di me", con la partecipazione di Gianna Nannini, serena e di ascolto gradevole, il cui argomento è un amore libero, raccontato con delicatezza ma senza reticenze. Nelle strofe è contenuto in parte l'aspetto esteriore di quest'amore, e la spinta a viverlo senza paure né esitazioni, tagliando con il passato, confidando nel meglio per il futuro e concentrandosi sul presente ("butta via i ricordi, getta ogni cornice, lascia spazio alle cose a venire"). Come si vede la struttura dei periodi è semplice e immediata e spicca la presenza di numerosi imperativi; inoltre non mancano frasi nominali (l'iniziale "le tue braccia lunghe spalancate all'aria"), e i verbi della canzone sono per la maggior parte al presente. Il congiuntivo ottativo della seconda strofa "ti riuscissi a dire, riuscissi a spiegare" mostra quanto le emozioni che l'innamorato prova siano ineffabili e non si possa realizzare il suo desiderio di esprimerle a parole ("...e le parole cominciano male"). L'inciso descrive il carattere speciale e portatore di vita di questo amore, certo non straordinario ma che tuttavia non può avere eguali per chi ne è protagonista, poiché si lascia riconoscere da piccoli ma evidenti segni. L'ingresso di Gianna Nannini quasi nel finale, sebbene la sua voce abbia una potenza sconosciuta a quella di Pacifico, non appare improvviso né tantomeno in contrasto con il tono del resto del brano ma piuttosto complementare: esprime l'energia propria e naturale di un amore come quello che si sta rappresentando, ed essa si irradia così al di fuori del microcosmo dei due innamorati.
Una delle canzoni più indecifrabili è senza dubbio "spiccioli", ridotta al minimo in testo e melodia, formata quasi solo da frasi nominali o da singole azioni che si rispondono ma sono collegate da un filo sottile. Per illustrarne il tema e l'ambientazione scelgo di servirmi delle parole dello stesso suo autore, perché mi è difficile ricomporre questi piccoli flash, spiccioli appunto, meglio di quanto lui abbia fatto: "...Questa è una canzone di abbandono, di tregua. Due persone a fianco dopo aver fatto l'amore, il buio della stanza punteggiato solo dai led degli elettrodomestici. Sentire finalmente che a nulla bisogna resistere, lasciarsi andare, sentirsi minuscoli, ultimi, spiccioli appunto. Il brano è costruito intorno alla misteriosa e affascinante chitarra di Amedeo Pace (Blonde Redhead)". Da aggiungere soltanto che alla fine si nota nel testo un complicato gioco di allitterazioni ed omeoteleuti che creano effetti fonici di un'asperità innaturale e dunque quasi di sicuro non casuale; ma altrettanto volutamente il motivo di questa ricerca di suoni, associazioni e ripetizioni delle stesse parole in determinate posizioni nei versi, che hanno un ritmo regolaree incalzante grazie alla collocazione fissa degli accenti, rimane avvolto nel mistero. Ne siano un esempio questi versi: "Cerchi buchi spigoli,/ bagnate fughe angoli,/ sollevate porte e grate sollevate;/ rossa la tua gola grida,/ neanche una parola vola,/ spalancate porte e grate spalancate".
"verrà l'estate" èfin dalle prime note canzone che trasmette serenità, la melodia è soave e fresca così come le parole; il sentimento dominante è la speranza, l'attesa di un risveglio, ed infatti il tempo verbale più usato è il futuro indicativo, già presente nel titolo. Alcuni particolari come la frase dell'inciso "sempre ti aspetto" e quella che compare nella prima strofa e ritorna poi come conclusione "verrà l'estate senza avvisare", mostrano che l'evento che si aspetta ha un significato in più rispetto al ciclico succedersi delle stagioni: non si sa con precisione quando arriverà e sarà un'estate nuova, che non conoscerà ostacoli ("salterà i muri, le cancellate") e saprà riempire tutti gli angoli; potremo facilmente avvertire la sua presenza dal grano diventato biondo, dalla luce e dal calore del vento, ed attraverso i nostri sensi penetrerà nell'anima senza bisogno di esservi indotta ("e verrà a prenderti, a portarti fuori"). Il finale con gli ultimi accordi di chitarra su "verrà l'estate, senza avvisare" suggerisce un'idea di sospensione, lascia in attesa di qualcosa di positivo e salvifico che non tarderà ad arrivare. Pacifico sceglie di cantare questo brano in duetto con Malyka Ayane, che con la sua voce pastosa ed elegante fa vivere e vibrare il senso di rinascita che permea tutta la canzone.
L'album si conclude con il brano che gli dà il titolo, che ci trasporta in un'atmosfera notturna e nostalgica a partire dall'introduzione con pianoforte e cori e poi in modo più esplicito nella prima strofa ("nostalgia, malattia che si attende che riaccende che si prende, che non va più via"); Pacifico immagina di indossare un paio d'ali e volare non visto dentro ogni casa, osservando la vita che vi si svolge, lasciando e ritrovando un po' di sè in ciascuna ("quante piccole cose, quanti oggetti dimentico"). Il suo occhio riesce a scrutare i movimenti delle persone ed i loro milioni di pensieri liberi come colombe al di sopra dei tetti; l'orecchio arriva a cogliere le voci allegre dei bambini dai cortili ma anche i sussurri di uomini e donne nelle stanze più interne. Alla fine questa vita che immagina di vedere ed ascoltare è resa con piccole scene teatrali accompagnate dalla musica, contemporanee ma ben distinguibili l’una dall’altra: il rumore del traffico in strada, la voce di un uomo (l’attore Fabrizio Gifuni) che si rivolge a qualcuno che lo sente da lontano, un uomo e una donna che parlano sottovoce in un angolo ed altre ancora. Anche qui prevalgono di gran lunga le frasi nominali e sono pressoché assenti commenti dell'autore alle scene che ci pone di fronte, eccetto qualche semplice metafora in cui condensa le sue impressioni ("maglioni capovolti in fila, le braccia lunghe a gocciolare"); diverse sono le figure di suono, che sembrano avere soprattutto funzione di contorno e di completamento dell'apparato musicale. Queste le poche ma pregnanti parole di Pacifico che inserisco a chiosa della recensione di questa canzone e dell'intero album: "Desideravo avvicinarmi con le canzoni alle persone il più possibile, avrei voluto seguirle con un taccuino per annotare storie e emozioni. In maniera più pratica e discreta le ho cercate con lo sguardo e poi ho tentato di immaginare come vivessero o cosa provassero. In auto per le strade di Milano mi guardo in giro senza troppa curiosità, un po' perché essendo la mia città lo spettacolo è più usuale, un po' perché questa è una città fatta di corridoi per spostarsi rapidamente da una parte all'altra: non è fatta per esitare, meno che mai per passeggiare, è una città da attraversare... Così, per sfuggire a queste sponde strette e vicine e alla tentazione costante di tenere la fronte bassa cerco una breve via di fuga alzando lo sguardo e involontariamente mi trovo a cogliere piccoli istanti nella vita di altre persone.. Questi brani sono dieci occhiate furtive, dieci finestre aperte in cui guardare."
Alissa Peron
Nota: ho tratto le parole di Pacifico e qualche spunto per la recensione da quest’interessante articolo:
http://www.italianissima.net/articoli/articolo.asp?articolo=200911513129.txt

sabato 14 aprile 2012

Concerto di Pacifico (3 marzo 2009)

L’ultima nota della melodia si è spenta da poco, sono ancora piena delle vibrazioni di questa serata indimenticabile che ho trascorso nell’atmosfera calda del piccolo teatro Verdi a Milano, seduta di fronte ad un palco colorato da palloncini e coriandoli su cui è salito e rimasto due ore e mezzo un personaggio che in tutto mi ha affascinato, nell’interpretazione dei brani, nella loro riscrittura e nell’eloquio: ho riconosciuto in lui uno fra i più acuti uomini di spettacolo e musica che abbia udito esibirsi. É il Pacifico magnifico che conoscevo già sempre accurato nella scelta degli strumenti, che riproduce gli stessi effetti del disco, violini e tintinnio di bicchieri, in “Dove comincia tutto”, canzone che apre l’album “Dentro ogni casa” e ha aperto la serata, con la quale ci ha invitato ad entrare nel suo mondo come nell’album ci invita a riscoprire la parte più semplice e vera di noi stessi; riscrive invece “Sembri una foglia” per chitarra piano e violoncello, marcando la contrapposizione tra interno ed esterno, fondamentale già nella versione originale e scandita in essa dal testo e da un diverso tema melodico, anche con un suono più o meno dirompente della chitarra: dentro tutto è malinconia e immobilità, fuori la vita scorre e sprigiona la sua energia. Ma è un Pacifico ancora più magnifico perché nuovo, il suo carisma sta nel suo essere misterioso e pacato, mai sopra le righe, dalla voce profonda e quanto mai rasserenante anche nel parlare, cordiale come un caro amico, abbagliante nell’uso del lessico ricercato ma non affettato, ironico ed autoironico nel modo più sincero e genuino, senza esagerazioni e proprio per questo efficace. Infatti il pubblico della sua città ha risposto positivamente a questo spettacolo di elevata qualità ma anche brillante vivacità: era Pacifico stesso a scherzare sul fatto che le sue canzoni non sono quel che si dice rivitalizzanti! Ma lo era lui specialmente per lo spirito, che solleticava senza interruzione durante gli interventi parlati, con garbo e senza affaticarlo in riflessioni troppo pesanti e inadatte al contesto. All’inizio ci ha deliziato con una sua biografia in terza persona, parlando di se stesso come se si trattasse di un individuo strano e difficile da definire, da guardare con curiosità e perfino con un po’ di sospetto; sottolinea come il suo carattere apparisse fin dall'infanzia raccolto e meditabondo, di una calma inusitata e in contrasto con il fermento di quegli anni (è nato nel 1964, quando già si preparavano le rivolte studentesche di poco successive). La canzone che ha seguito il primo capitolo di questo racconto è stata “l’incompiuta”, in cui Pacifico racchiude quel poco che sa del percorso della sua vita: sa di avere giorno dopo giorno cancellato il dipinto dell’innocenza che ha ricevuto appena nato, e che dopo ogni vetta raggiunta se ne presenta una più alta, e che la sua vita, per quanto aumenti l’esperienza, resterà un’opera incompiuta. Uno degli interventi che mi hanno più toccato e commosso è stato quello in cui Pacifico ha letto una lettera della sua professoressa di italiano delle superiori (finzione letteraria? Forse, ma poco importava), che gli scriveva dopo molti anni di assenza di contatti avendo appreso dai giornali che il suo ex allievo era ormai musicista; rievoca momenti di gioia e di inquietudine condivisi con lui, pochi ricordi ma vivi nella sua mente, e riassume il cambiamento ma anche l’identità di Pacifico con quel se stesso di molti anni prima, sempre riflessivo ma più impacciato e titubante nei confronti della vita: senza dubbio tratti che li accomunano sono l’abilità con la penna (l’insegnante quando correggeva i temi lasciava il suo per ultimo, come ci si conserva per la fine la parte centrale della pizza!) ed una timidezza che non ha nulla a che vedere con la ritrosia e che ho trovato incantevole. É proprio questo continuare a vivere come fosse sempre in pericolo, cosa che lo induce a non sentirsi né mostrarsi divo sul palco, che rende quest’autore quello che possiamo apprezzare, silenzioso e gentile, capace di cucire note e parole ricche di tante e tali sfumature da non permettere di distinguerne i contorni, così da potersi adattare a svariati contesti e personalità. Ne è prova il fatto che il pubblico era vario quanto ad età e tipologia di spettatori, dagli amici agli studenti alla stampa, e che quasi tutte le canzoni sono state rivisitate nell’arrangiamento sfruttando le risorse del live. “Verrà l’estate” è stata suonata solo con piano chitarra e campanelli, che sembravano richiamarci a godere delle sensazioni piacevoli che trasmette, e durante l’esecuzione ha fatto la sua comparsa Malika Aiane, che vi ha aggiunto classe e ha dato vita a quell’ideale di speranza e rinnovamento connesso con il ritorno dell’estate, scopo per cui è stata scelta per interpretare questo brano in duetto con il suo autore nell’album “Dentro ogni casa”. Pacifico sente ancora che gli appartengono brani da lui scritti per altri, perché non solo li ha ricantati ma ha dato loro un significato all'interno del concerto ed in qualche caso ne ha raccontato in breve la storia: "Stringimi le mani" scritta per Gianni Morandi è stata preceduta dal divertente aneddoto di un sms ricevuto mentre era al cinema e a cui all'inizio non aveva dato peso, convinto com'era che si trattasse di uno scherzo dei suoi amici buontemponi e non della richiesta di scrivergli una canzone da parte di uno dei pilastri della musica italiana! "Smog" fu scritta per Celentano ma da lui rifiutata, e cantando le strofe Pacifico ci ha chiesto di esprimere tutto il suo rancore urlando a gran voce le lettere SMOG a tempo di musica! La canzone conclusiva del concerto è stata opportunamente la stupenda "le mie parole" regalata a Bersani: le parole sono state la linfa vitale dello spettacolo, e chi meglio di lui potrebbe testimoniare il loro potenziale alla fine di una serata come questa? Quest'uomo/autore non ama gli schemi rigidi in nessun caso, e lo ha ben dimostrato: non c'era un ordine riconoscibile nelle canzoni, nello svolgimento della serata, nella sua stessa biografia: l'ordine seguiva il flusso dei pensieri ed era perciò libero anche se non arbitrario, perché nulla sembrava né poteva essere casuale; Pacifico sa rendere netti i confini tra questi concetti, che spesso appaiono così simili da confondersi. Ho invidiato moltissimo lo spettatore che ha avuto il privilegio di salire sul palco e prendere con Pacifico un caffè preparato per l'occasione, buona abitudine italiana/campana, il giusto tramite per portare alla canzone "caffè" ed un atto che comunemente compiamo al mattino quando ci svegliamo e che anche lui compie perché la sua è per molti versi un'esistenza qualunque. Ho invidiato anche i numerosi spettatori, quasi la metà del pubblico in sala, che sono saliti sul palco alla fine del concerto, forse amici e conoscenti che potevano incontrarlo non fugacemente ma come persone a lui legate; quanto ho desiderato avvicinarmi a chi aveva saputo darmi tanto, non so cosa avrei detto, magari mi sarei limitata ad un saluto ed una stretta di mano, ma volevo significare che io c'ero e che quello che ho provato stasera resterà un ricordo da far scorrere quando il tempo sembrerà "lento".

venerdì 13 aprile 2012

Incontro indimenticabile con Pacifico

é difficile sia racchiudere in poche parole quanto è successo oggi alla Fnac di via Torino, sia tentare di descrivere con precisione i toni, le sfumature e le corde toccate da quella voce calda che ho avuto la fortuna di ascoltare flettersi in note e parole da vicino, anzi da vicinissimo. Che un cantante da me così amato come Pacifico presentasse il suo nuovo disco alla Fnac alle 18 di oggi, e che non ci fosse nessun ostacolo alla mia presenza all'evento, è stata una sorpresa che mi ha fatto attendere questa giornata carica di gioia e di fiducia: conosco bene questo personaggio perché ne seguo le vicende artistiche da sei anni e soprattutto ho assistito tre anni fa ad un suo concerto e l'avevo trovato affascinante, ma nel senso originario del termine, cioè mi sono sentita sotto l'effetto di un incantesimo seguendo il flusso delle sue parole e melodie. Oggi lo stesso fascino mi ha catturato fin dall'inizio, ma sapevo che il contesto era più intimo ed avrei potuto mettermi pazientemente in coda per un autografo e, con un po' di audacia e di fortuna, scambiare qualche battuta con lui... Con queste intenzioni oggi ho raggiunto il secondo piano della Fnac ben un'ora e mezza prima delle 18, orario in cui era previsto l'inizio dello spettacolo, e ciò è valso per me e il mio papà due splendidi posti in prima fila! Alle 17 circa viene portata in sala la tastiera e poco dopo fa la sua comparsa Pacifico in persona; lo intercettiamo prima che inizino le prove per una foto, io ero lontanissima dall'aspettarmelo e per qualche breve istante, come spesso mi accade, l'eccitazione mi ha fatto arrossire e tolto le parole. Ho stretto la mano delicata di Gino e mi sono presentata, piacere, Alissa; il mio nome l'ha colpito e incuriosito e me ne ha chiesto l'origine, io ho risposto che è tratto da un romanzo e lui ha scherzato "sono io l'ignorante", subito lui, cordiale e spiritoso come lo ricordavo. Abbiamo sorriso insieme per le foto ed il filmato che resteranno a ritrarre quel momento e ci siamo salutati in attesa di ritrovarci più tardi; io ancora stentavo a credere di essermi tanto avvicinata a lui così presto, ma per questa sera avevo ricevuto solo la prima scarica di adrenalina! Più intensamente di prima, con i posti migliori assicurati e un'immagine indelebile già scolpita nella mente ho trascorso l'altra ora e un quarto di attesa; tutti abbiamo dovuto lasciare la sala perché si portassero dentro gli strumenti necessari e si svolgessero le prove dei suoni, e alle 18, quando ormai tutto era pronto, le porte sono state riaperte ed abbiamo riguadagnato le nostre sedie. Pacifico fa il suo ingresso pochi minuti dopo accompagnato da un applauso e subito comincia l'incanto: la stessa garbata ironia ed autoironia che avevo apprezzato al teatro Verdi, la squisita genuinità e modestia nel raccontare com'è nato il disco corale "una voce non basta" e come ormai Pacifico sia abituato ad un clima di condivisione con gli altri non solo nel suo lavoro. Ha confermato questa sua volontà anche stasera conducendo la presentazione in forma di dialogo, sollecitando più volte le nostre domande tra un brano e l'altro. Dopo il consueto silenzio imbarazzato è stato rotto il ghiaccio e gli sono state poste curiosità su vari argomenti, per esempio sugli artisti con cui ha duettato nel disco, sulla sua nuova vita a Parigi e sul suo rapporto con la scrittura musicale ora che da diversi anni è tra i cantautori più raffinati del panorama italiano. Ha risposto con gentilezza e sincerità, raccontando incontri precedenti con gli artisti che ha poi invitato a partecipare al suo progetto, spiegandoci che non sente ancora completamente avvenuto il suo trasferimento a Parigi ("Sono a metà strada, diciamo a Ginevra!"), e che ora si sente in una fase di maturità nella composizione, dichiarandosi sprovvisto delle competenze tecniche come musicista per colpa di una terribile insegnante di pianoforte ("Sono stato un chitarrista da spiaggia fenomenale, tutto ad orecchio!") ma instancabile nel cercare belle frasi e ritornelli per le sue melodie. Quando ha imbracciato la chitarra per regalarci la prima canzone "A nessuno" ne è uscita una sorprendente versione acustica, semplice ma non spoglia, che ho cantato sottovoce sentendo i brividi. I brani successivi sono stati eseguiti insieme al piano di Giovanni Guerretti ed alla voce limpida e corposa della giovane Simona Severini. Continuava l'alternanza di musica e scambio con il pubblico e un'idea cominciava a farsi strada nella mia mente: io di solito in queste situazioni sono timidissima nonostante non mi manchino le domande e le considerazioni, ma oggi era diverso perché tutto stava andando alla grande, ero a circa due metri da Pacifico, l'avevo incrociato prima del previsto, perché non intervenire? I battiti mi erano accelerati di parecchio, ma dopo la seconda canzone ho raccolto il coraggio per alzare la mano e parlare nel microfono; ho sottolineato e chiesto di approfondire l'aspetto che più mi ha colpito e mi interessa del nuovo album, cioè la quantità di canzoni che si concentrano sui passaggi tra luce ed incompleta oscurità del mattino e delle prime ore della notte, è un album insomma formato in gran parte da albe e notturni. Certo, in queste condizioni è facile abbandonarsi alle riflessioni più intime e personali, ma soprattutto la vita di ciascuno, qualunque ruolo o mestiere svolga alla luce, è simile a quella degli altri e dunque anche quella dello stesso Pacifico non è distante dalla nostra. Dopo aver scherzato sulla troppa intelligenza della domanda egli ha risposto focalizzandosi su questo secondo aspetto, che peraltro avevo richiamato partendo da altre sue interviste; ha precisato che non era un suo proposito dedicare tante canzoni all'alba e alla notte ma ci si era trovato, come non aveva intenzione di inserirne due sull'estate ("Forse questa è stata una pecca stilistica"). Tuttavia la notte e il mattino sono le fasi in cui tutti noi lui compreso abbiamo gli stessi pensieri e compiamo le stesse azioni: svegliarsi e darsi uno sguardo nello specchio ancora addormentati, fare progetti sulla giornata che sta per cominciare senza sapere mai con certezza cosa ci aspetti davvero, osservare un paesaggio solitario di montagna sotto il cielo stellato e sentirsi un piccolo punto nell'universo. Ha ribadito quanto ai suoi occhi la sua esistenza sia comune e simile alla nostra, ricordando per contrasto un'intervista di Madonna che affermava di essere una persona come tante e, poco dopo, di non aver mai cucinato un piatto in vita sua! Questa risposta è stata la conferma di ciò che avevo intuito dalle canzoni stesse e da alcuni momenti del concerto a teatro, in particolare quello in cui ha chiamato sul palco uno spettatore ed hanno bevuto insieme un caffè, come lui ed ognuno di noi fa tutte le mattine da buon italiano. Altra energia mi aveva invaso e il prosieguo dello spettacolo non poteva che essere un crescendo in cui quelle canzoni, precedute da un'essenziale introduzione, mi venivano incontro e mi svelavano angoli e sensi nuovi benché le conoscessi quasi a memoria. In "second moon" Pacifico ci trasmette i suoi ricordi della notte dello sbarco sulla Luna, le immagini quasi fotografiche degli adulti davanti al televisore a tubo catodico e in particolare le zie che discutono di quegli astronauti ripiegando le tovaglie e spezzettando i fagiolini per il giorno dopo davanti ai suoi occhi curiosi da bambino di cinque anni che non capiva la portata degli eventi di quella notte. Ora per destare tale meraviglia ed attenzione la Luna deve fare i numeri, oscurarsi come durante le eclissi o mostrarsi tanto luminosa tra le stelle da sembrare il direttore d'orchestra della notte; ecco perché Pacifico ipotizza la comparsa di una seconda Luna e prova a raffigurarsi le reazioni di grandi e bambini di fronte ad essa, chiedendosi se cambierebbero o sarebbero le stesse. Non include "Strano che non ci sei" "nello sparuto gruppo delle canzoni allegre" ed è vero che è malinconica, ma a me da subito sia la musica sia alcune frasi del testo avevano suscitato l'idea di una malinconia non del tutto negativa; questa sera ne ho capito meglio il motivo, perché racconta certamente della perdita e quindi dell'assenza di una persona cara, ma nello stesso tempo della sua presenza. Pacifico si è descritto mentre fa una telefonata o prende una bottiglia di vino proprio come ai tempi più felici accanto ad un affetto così importante, che dunque sembra non allontanarsi dal suo quotidiano oltre che dai suoi pensieri e dalla sua memoria. Nel finale ho compreso l'ampio respiro di "infinita è la notte" pensandola come un volo sulla città, e ho notato una volta di più quanto Pacifico sappia accordare melodie e testi: quale miglior conclusione di quelle note lente ed imponenti che rappresentano l'immensità di un paesaggio notturno visto dall'alto ma impossibile da abbracciare con lo sguardo, com'è inafferrabile il tutto per la nostra mente. Alle ultime note del live sono seguite subito quelle del disco, il giusto sottofondo al momento degli autografi; io avevo già tra le mani il mio CD a cui far porre il timbro unico del suo autore ed interprete e mentre aspettavo il mio turno sono stata di nuovo colta dall'emozione: non avvertivo in modo distinto lo scorrere dei minuti né le voci intorno e mi sentivo piuttosto accaldata, ma dovevo controllarmi per aggiungere un'altra preziosissima perla al tesoro di questa serata. Quando è toccato a me Pacifico mi ha chiamata per nome, abbiamo discusso ancora brevemente sulla mia domanda e sulla risposta più o meno dignitosa, e non ho smesso un attimo di stupirmi per la dolcezza e la modestia dell'artista che avevo di fronte. Ho espresso gratitudine a Samuele Bersani per aver per primo scoperto e valorizzato il suo talento come cantautore, e la commozione che avevo provato durante il festival di Sanremo ascoltando dal teatro Ariston Adriano Celentano e Gianni Morandi cantare la sua bellissima "ti penso e cambia il mondo" con tutto il pubblico in piedi come una sola entità; Pacifico ha vissuto queste sensazioni da casa, ma era chiaro che anche per lui erano state forti nonostante l'umile timidezza con cui reagisce quando gli rammento cosa ha creato la sua penna. Infine ci scambiamo un abbraccio e un saluto e mi restituisce il CD, e una volta fuori dalla sala scopro finalmente cosa ha scritto sul retro del libretto: "Per Alissa. Grazie per la tua attenzione e delicatezza. A presto, Gino de Crescenzo Pacifico". A te un oceano di grazie, Pacifico a dir poco magnifico!