domenica 7 aprile 2013

Recensione del brano "Dal giardino tropicale" di Pacifico

La canzone "dal giardino tropicale" è una vera cartolina in musica di straordinaria bellezza, scritta da una spiaggia “appena uscita dal mare” ma non ad agosto, bensì in una notte d’inverno che volge ormai all’alba. L’autore è circondato da un paesaggio in apparenza immobile e quasi deserto, ma la sua descrizione e l’atmosfera che la melodia crea fin dai primi accordi non trasmettono affatto un senso di desolazione: la vita pervade invece ogni elemento, certo non frenetica come in estate ma quieta e inesorabile. Forse il nostro scrivente si trova qui proprio per fare il pieno di questa pace profonda ed inconsueta nei suoi giorni: il “Finalmente” dell’inciso mi sembra esprimere tutto il sollievo e la gioia di sentirsi a un passo dal mare e dal cielo stellato, con la libertà e l’agio di contemplare l’immensità ed insieme osservare ogni più piccolo dettaglio, ascoltare ogni più impercettibile rumore ed accoglierlo in sé. Nelle strofe Pacifico dimostra notevole abilità nello scolpire figure attraverso le parole servendosi di allitterazioni, metafore, similitudini e frasi nominali, permettendo a chi ascolta/legge di visualizzarle nella propria mente. Inoltre, una volta passate attraverso i suoi occhi, queste immagini sono rielaborate ed interpretate dalla sua vivace fantasia e ciò rende la cartolina così speciale. Le barche sparse sulla sabbia sono quasi personificate, non stanno per essere calate in mare perché non è la stagione adatta ma sono invece "svogliate e capovolte al sole", e portano scritto un nome che deve essere “Caro al pescatore” cui appartengono; il loro legno è "a scarti a schegge a miniature", le consonanti ripetute ad inizio parola riproducono il rumore secco delle schegge che si staccano disegnando sulla superficie motivi irregolari che al suo sguardo paiono miniature, e i loro pali immersi in piccola parte nel mare hanno “l’acqua alla vita”. È interessante la descrizione della ruggine delle ancore e dei pontili, sulla quale l’autore focalizza più volte la sua attenzione connotandola con diverse metafore: all’inizio è rappresentata come una bruciatura ("ustiona") che si accompagna al ferro e insieme ne sottrae un po’; nel secondo caso "gratta", Pacifico sceglie un altro verbo per indicare che rende ruvido il ferro, ed oltre a sottrarne una parte lo "spoglia", immagine ancora più precisa perché chiarisce anche che ciò avviene per strati, come se la sua superficie più esterna fosse un vestito. Nella seconda strofa si ode il fruscio di qualche movimento, la vegetazione che sventaglia al passaggio dell’unica persona presente, i passi di un cane magro e ormai abituato a vivere in assenza di esseri umani; il cigolio di una giostra inutilizzata da tempo, composta di draghi e mostri marini coperti da un telo di plastica forse agitato dal vento, all’orecchio di Pacifico somiglia ai bisbigli sommessi dei bambini sotto le lenzuola. L’inciso è come il messaggio sul retro della cartolina, l’autore rivolge un pensiero di estrema delicatezza ad una persona a lui cara suscitatogli da quel luogo tranquillo e sconfinato: ritorna spesso nella canzone con alcune variazioni sensibili ("dovunque mi giri / mi volti stelle, forse una di quelle si fa cercare / ti sta a guardare, si fa indicare da te / perpendicolare a te").