sabato 19 gennaio 2013
Alcune considerazioni sull'album "Eva contro Eva" di Carmen Consoli
L'album uscito nel 2006 segna il compimento della svolta già in parte avviata con "l'eccezione", che non a tutti è piaciuta per una presunta perdita della vena rock, la mancanza delle chitarre distorte degli album precedenti. Ciò è stato sottolineato da più parti nel bene e nel male, il mio obiettivo ora è di sottolineare il fascino che esercita su di me questo ritorno alle origini, alle radici della musica perché no anche regionale, ed anche i punti di continuità con la Carmen Consoli precedente dalla quale così spesso sono state evidenziate solo le differenze. Questa cantante ha certamente uno stile riconoscibile ma non si può considerare monolitica, legata ad un unico genere o ad un unico tipo di sonorità; credo che si noti facilmente non solo ascoltando "l'eccezione" ma anche ponendo attenzione ai due album "confusa e felice" e "mediamente isterica" che rappresentano tuttora il motivo principale del suo successo. Mi è capitato di sentirle affermare che quando scrive le sue canzoni sono i testi che modellano gran parte della musica, e ritengo che una delle sue peculiarità sia proprio quella di non creare contrasto tra le parole e la melodia e gli arrangiamenti che le accompagnano; come paradigma di questa sua caratteristica potrei proporre un confronto tra una delle pagine più pure e delicate del suo repertorio, "14 luglio", e uno sfogo diretto e senza ritorno come "per niente stanca".
Con "Eva contro Eva" la Consoli in parecchie canzoni mi sembra scendere nei dettagli di una realtà che prima non aveva mai esplorato, quella della sua Sicilia osservata dal punto di vista delle persone umili dei paesini delle quali descrive alcuni episodi della vita e soprattutto i pensieri; era inevitabile che questo portasse la cantautrice a ricercare una musicalità nuova ed essenziale, e per ottenere questo risultato si è avvalsa della collaborazione del gruppo tradizionale siciliano dei Laudari.
Le chitarre e i flauti dunque giocano un ruolo centrale e creano l'atmosfera antica che permea tutte le canzoni e valorizza i testi quasi tutti piuttosto drammatici, ma anche su questo è bene sfumare il giudizio: a caldo, appena ascoltato l'album, ho avuto l'impressione di un quadro oscuro con un'unica finestra di speranza, la canzone conclusiva "il sorriso di Atlantide"; in realtà alcuni di questi pezzi sono carichi di disillusione e denuncia, ma guardando meglio per esempio a "madre terra" si coglie più ancora del compianto per la sorte dell'Africa "violata abusata e offesa" la gioia e l'intensità di quel continente legato alle proprie tradizioni ma pronto ad accogliere maternamente, espressa in primo luogo dalla voce armoniosa di Angelique Chigio; le parole in cui le voci delle due cantanti si accordano, posizionate in fine di verso nell'inciso, tra cui anche lo stesso titolo "madre terra", sono le più significative, l'invocazione unisce Oriente ed Occidente nello stesso bisogno del caldo abbraccio di una madre comune. È questa un'affermazione positiva o almeno una speranza legittima, l'aspirazione che si riconosca l'universalità dei bisogni primari e quindi dei diritti elementari; questo senza annunci e senza scandali, con quelle risorse consentite dal linguaggio musicale così ricco e capace di trasmettere messaggi per più canali in contemporanea, in questo in parte simile al teatro, almeno nel caso di una cantante che estende più che può le sue ricerche e adatta i mezzi a sua disposizione sia al suo stile sia alle esigenze espressive del momento.
Quando il CD era uscito da pochi giorni, prima ancora di acquistarlo, ho avuto il piacere di ascoltarlo dal vivo durante il tour associato con l'accompagnamento dei Laudari; mi ha colpito il pathos che si è creato nonostante fossi al forum di Assago, in quelle canzoni dove il ruolo principale spettava alle parole, come "la dolce attesa": esse arrivavano in tutti gli angoli della sala con la stessa forza proprio come a teatro, e questo era senz'altro favorito dall'essenzialità degli arrangiamenti pur curatissimi; la storia mi si è dipinta davanti alle sole parole "gravidanza isterica", e si faceva via via più chiara per il numero di dettagli sugli stati d'animo e le azioni della protagonista che non a caso rimane anonima, in contrasto con l'atteggiamento di indifferenza delle persone che ha intorno che, dopo averla indotta in errore, tollerano di esporla ad una grave sofferenza "per viltà", questo il commento di Carmen che si inserisce nella storia in modo esplicito ed implicito e, com'è sua abitudine, non la racconta soltanto nella sua crudezza. Interviene da vera maestra aprendo l'inciso con un "mentre aspettava il lieto evento che mai avrebbe avuto luogo", chiarendo ancora meglio la situazione di quella donna, poi descrivendo con minuta precisione i suoi preparativi per il parto, i suoi stati d'animo e la percezione di quella creatura nel suo corpo che in realtà è solo una sua idea ("sentiva quell'essere muoversi con grazia superba come un trapezista in scena"; le anafore unite alle climax ascendenti esprimono bene l'attesa che si prolunga tra l'inerzia di tutti e la felicità crescente della protagonista che è destinata a tramutarsi in un abisso di disperazione. Da questo e dal fatto che il titolo di una simile canzone è "la dolce attesa" si evince la simpatia di Carmen per la protagonista e il suo disprezzo per l'ipocrisia di "tutti": li chiama sempre così per dare ancora più risalto alla solitudine della donna nel suo dramma, e a volte condanna apertamente la loro viltà, a volte li colpisce con il suo tipico sarcasmo fingendo di spiegare il loro punto di vista come se fosse ragionevole ("sarebbe stata questione di giorni, ed avrebbe chiarito da sé l'increscioso equivoco di cui era la sola ed unica artefice"). La canzone si chiude con gli ultimi istanti di quell'attesa così pienamente vissuta dalla donna ("mistica e lenta la dolce attesa"), non c'è bisogno di raccontare un finale ovvio e terribile, che si conosceva fin dalle prime battute.
Altra aspra condanna dell'ipocrisia e della credulità popolare è la canzone "Maria Catena", la storia di un'altra donna questa volta con un nome parlante che ci mostra subito lo stato di prigionia ingiusta, umiliante e difficile da scrollarsi in cui la protagonista si trova: è vittima dei pettegolezzi della gente che, fidandosi di chiacchiere infondate e menzognere, la accusa di colpe che non ha commesso e la esclude dalla comunità in maniera sia sostanziale sia formale: emblematico in questo senso "il rifiuto del parroco di darle l'ostia" da cui prende spunto l'intera riflessione di Carmen. Anche qui la cantautrice sta decisamente dalla parte della protagonista alla quale nell'inciso si rivolge direttamente con accenti pietosi e comprensivi ("anche tu conosci quel nodo che stringe la gola") e di amara ironia ("e ti chiedi se più che un dispetto il tuo nome sia stato un presagio"); nelle strofe invece si concentra sul racconto in terza persona della situazione nella quale l'hanno messa i compaesani, dal primo all'ultimo, che sono assolti o assolvono "da più di vent'anni dai soliti peccati", vanno in chiesa con regolarità ma sono lontani mille miglia dalla vera religiosità ("Cristo in croce sembrava alquanto avvilito dai vizietti di provincia"). Il ritornello si ripete sempre identico e questo, unito alle parole stesse di Carmen, fa pensare ad un ripetersi del medesimo inferno da tempo immemorabile, ed ogni volta il dolore si rinnova tal quale perché il pettegolezzo alla lunga si alimenta ed acquista sempre più credito ("stai ancora scontando l'ingiusta condanna nel triste girone della maldicenza"); il girone mi evoca l'immagine di una pena che non conosce tregua e va oltre il tempo, ininterrotta come il trasmettersi delle chiacchiere di padre in figlio, inseparabile dalla misera condannata come il suo infausto nome. L'episodio che qui si racconta è ambientato in chiesa durante la messa, e Carmen nella prima strofa dà un'immagine immediata della comunità "il vecchio prelato assolveva quel gregge da più di vent'anni dai soliti peccati"; gregge però non in senso cristiano e quindi positivo, di docili creature che si affidano al loro pastore, ma, come si evince dal rimando ai "soliti peccati" e dalle immagini così violente appena successive ("il pettegolezzo imburrato infornato e mangiato, quale prelibatezza e meschina delizia per palati volgari, larghe bocche d'amianto fetide come acque stagnanti), il termine gregge serve ad indicare pecore senza discernimento che seguono altre pecore senza chiedersi dove stiano andando ed accettando come oro colato qualunque bugia; Cristo in croce più volte chiamato in causa, l'unico che conosce la verità e non a caso lontano da tutti in quella chiesa, "mostrava un sorriso indulgente e quasi incredulo".
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