sabato 3 novembre 2012

Recensione del brano "il più grande dei miei sbagli" di Valeria Vaglio

"il più grande dei miei sbagli" è la canzone centrale dell'album “stato innaturale” di Valeria Vaglio, una delle più profonde e difficili da analizzare, a mio avviso un capolavoro: quasi ogni parola evoca una pluralità di immagini e le connessioni tra i pensieri appaiono labili e molteplici, proprio come quando lasciamo parlare la parte più profonda di noi stessi senza darle troppe istruzioni, e questa libertà è confermata dal fatto che, a fronte di altre canzoni con struttura anche metrica molto regolare, questa si regge solo su assonanze e mancano quasi del tutto le rime perfette. È la storia di una passione contrastata ma vissuta con la massima intensità, che nelle strofe viene raccontata attraverso affermazioni generali o che appaiono tali (numerose le espressioni impersonali con il noi, il tu e il si), mentre negli incisi Valeria si rivolge alla persona amata e le esprime direttamente quello che prova. I primi versi sottolineano che basta un incontro a fare in modo che le reazioni del cuore non seguano la stessa direzione della mente, e la distinzione "quelli che incontriamo per caso o per destino" allarga l'insieme tanto che non si esclude nessuno degli incontri possibili nella vita, qualsiasi persona può non essere solo di passaggio. I battiti aumentano senza controllo alla vista di una stella caduta da un cielo sconosciuto, e quest'immagine fa subito pensare ad un desiderio che si avvera anche se non eravamo del tutto consapevoli di provarlo. Ma in quale delle due direzioni vanno allora i nostri atti? In alcune situazioni prevale quella del cuore, e Valeria sta parlando di una di queste; Di conseguenza vengono l'ingiustizia tra l'avere e il dare, l'impossibilità di definire i propri sussulti ed il bisogno di mantenere "all'erta i sensori di integrità morale, quand'è tutto concesso se a comandare è il cuore". Dagli incisi si evince che la fortissima passione qui descritta è inconciliabile con le regole e le categorie esterne a Valeria e dunque impossibile da realizzare in concreto, non sappiamo per quale motivo; perciò è inevitabile che essa provochi sofferenza e che la protagonista sia costretta a venire a patti con quella logica che non condivide: non può e non vuole ritirarsi ma solo "riuscire a stare un passo dietro tutta l'altra gente, sapendo che comunque sei la cosa più importante". È molto più facile vivere una passione o un amore in modo spontaneo e senza preoccuparsi delle conseguenze, ma quando ciò non è possibile tenere al centro quella persona restando indietro rispetto alla corsa del mondo ed esponendosi ai rischi che comporta il parziale distacco dalle leggi che lo governano, rinunciando così alla protezione che gliene deriverebbe, è una scelta coraggiosa e combattuta, e questo è il motivo della tensione che si coglie nell'interpretazione soprattutto degli incisi. Il primo si apre con l'immagine di un momento accanto alla persona amata che appare meravigliosa e capace di incantare come un angelo, e per associazione immediata si disegna nella mente di Valeria quella degli angeli dei quadri che le è capitato di vedere; il senso di dolore che questo le procura è reso con efficacia dalla scala discendente delle note che accompagnano le parole successive, acuito dall'opposizione con quei dipinti: lì è possibile fotografare un momento anche brevissimo, fare in modo che un sorriso o un tramonto durino tutta l'eternità, mentre nella realtà lo scorrere del tempo è implacabile e sottrae sempre troppo presto le immagini più belle e celestiali; trovarsi accanto alla persona amata diventa ogni volta una sorpresa, ed ogni volta è più straziante vederla svanire come un tramonto, interrompere l'incanto proprio quando meno lo si vorrebbe. Ci vuole coraggio anche per poter afferrare quei pochi istanti tuffi da due metri, e per dare spazio a piccoli gesti che possono far nascere e modificare emozioni più grandi, alleviare quella sofferenza pungente se solo si è disponibili ad accettarli e abbandonarsi alla loro semplicità. Anche esprimere a parole i propri sentimenti, magari rispondendo a domande casuali in qualunque contesto, può dare un senso di sollievo e Valeria dice a chiare lettere che non è segno di debolezza lasciare da parte le maschere anche se non completamente, almeno per pochi attimi: tante precauzioni e reticenze richiede accettare una storia come questa, dunque è naturale cercare quel leggero sollievo! La seconda strofa finisce con la frase "se avessi tempo e fiato non proverei timore di intrecciare male il senso e le parole", e non è difficile pensare a circostanze, specialmente accanto alla persona amata, in cui la mancanza di tempo e l'affanno che toglie il fiato impediscono di scegliere le parole giuste che corrispondono al senso, cioè a ciò che sentiamo e al significato che vogliamo dargli, insomma a ciò che vogliamo trasmettere. È questa un'espressione alla prima persona dopo tante alla terza, sembra che il coinvolgimento di Valeria aumenti pian piano in una climax ascendente come se si fosse fatta via via più coraggio nel cantare i moti del suo cuore. Nell'ultimo inciso figura per la prima volta il pronome "io" piuttosto enfatico, in accordo con il tono e il contenuto di questi versi: infatti la frase finale che occupa l'ultimo inciso e significativamente si ripete due volte con la batteria che diventa da leggerissima a più forte, è una sorta di confessione che Valeria immagina sussurrata e contiene sia la considerazione dell'impossibilità della storia alla quale il desiderio di Valeria si oppone (congiuntivo ottativo se potessi), sia la disponibilità a donarsi totalmente alla persona amata, affidarle la sua vita e il suo tempo senza condizioni e senza chiedere niente in cambio, "fosse anche l'ultimo e il più grande dei miei sbagli"; sulle ultime note la musica sfuma e rimane la sola voce di Valeria che quindi per quanto bassa sembra levarsi in un grido a un tempo disperato e deciso.

domenica 22 luglio 2012

Valeria Vaglio, recensione del brano "ore ed ore"

Valeria Vaglio, cantautrice barese di 29 anni, si pone all'attenzione del largo pubblico nel 2008 quando presenta al festival di Sanremo nella categoria nuove proposte il brano "ore ed ore". A marzo dello stesso anno esce il suo album "stato innaturale", che contiene dieci brani inediti da lei composti tra cui quello sanremese ed una cover della celebre "Oggi sono io" di Alex Britty. Colpisce di Valeria la grazia straordinaria che deriva dalla scelta accurata delle parole di una ricercatezza senza affettazione, alle quali si adattano le melodie di volta in volta fresche o gravi ma mai stucchevoli, e dall'interpretazione sobria, dalle note diritte, talvolta sussurrate e tuttavia nient'affatto asettica, anzi con una forte carica emotiva. Questo perché Valeria è protagonista delle sue canzoni che non raccontano intere storie ma momenti di esse scanditi dai pensieri che li accompagnano, e l'autrice sembra parlare a se stessa anche quando usa il tu, raccoglie e conserva attraverso la musica spaccati di vita e moti interiori. Non sente sempre il bisogno di indicarne il contesto ma tende a dare a ciascuno un valore di per sé, e spesso si riesce ad immaginare intorno ad essi una storia solo grazie a piccoli accenni o particolari linguistici: alcune canzoni come "ore ed ore", "le carezze e la ferita", "fotografia" hanno come cornice un amore omosessuale, e ne è l'unica spia l'uso al femminile degli aggettivi e dei pronomi riferiti al partner; Valeria rifugge da qualunque retorica e non afferma da nessuna parte l'uguaglianza tra amore omosessuale ed eterosessuale, perché essa emerge da sola se è vero che ad entrambi sono comuni la gioia infinita di perdersi nell'altro dimenticando tutto o il dolore del tradimento e della fine. Nessuna dichiarazione diretta o proclama, solo emozioni pure e svincolate dalle circostanze, raccontate con garbo e naturalezza. Il brano "ore ed ore" ci trasporta nell'atmosfera carica di nostalgia di una giornata invernale in cui la protagonista, nella casa che ormai non condivide più con la compagna, è sopraffatta dai ricordi di un amore che è finito senza che potesse evitarlo per colpa di un tradimento; non si dice altro sulle ragioni, lei stessa sa solo di non potervisi sottrarre e non cerca invano parole che possano spiegarle; tuttavia da più di un verso sembra che Valeria manifesti una propria ingenuità negli atteggiamenti quando la passione era ancora viva ("ma come ho fatto a non capire", "tradire è una follia, io non ne avevo idea", ma non si rimprovera per questo e in definitiva si arrende al fatto che non esiste una spiegazione che possa convincerla e non suonare come una scusa a posteriori che offende il sentimento che lei e la compagna hanno vissuto. Nelle strofe Valeria si rivolge alla compagna e le comunica i suoi pensieri, comincia con un futuro con cui dichiara la sua consapevolezza che ormai la fine è reale e senza rimedio, e non cambierà le cose il fatto che lei desideri ricominciare; l'inciso invece è fatto solo dai ricordi del loro amore che tornano spesso prepotenti tanto da non poter essere ignorati, e questo mi fa pensare che la storia si sia chiusa da poco tempo. È costante la dialettica tra passato e presente, ben espressa anche dall'uso dei tempi verbali, ed essi sono ad un tempo inseparabili ed antitetici: lei è ben sicura che il passato non potrà più rivivere e cerca di allontanarlo un poco da sé eliminando le piccole cose che lo evocano (penso ad espressioni al futuro indicativo come "non metterò mai più il maglione rosa e blu" o "non sarò più io a dirti..."), ma non per questo si è spento il suo desiderio, il suo cuore e la sua mente sono tutt'altro che rassegnati a questa realtà, le immagini di quell'amore e la passione provata non si possono rinchiudere in un armadio come i maglioni (non te lo dirò mai ma ti amo ancora sai, lascerò la porta aperta fosse anche per vent'anni o per un'eternità"). In mezzo a questi pensieri riesce soltanto a pregare che prima o poi finisca quest'inverno reso tetro dalla solitudine intollerabile, in un ambiente e tra oggetti che suscitano ricordi che non le faranno ritrovare la quiete; in quel tempo precedente di cui parla solo al passato, mentre fuori era freddo e nevicava le ore non passavano monotone ma ricche d'amore, ogni gesto e odore era parte di un rituale sacro che solo lei e la compagna conoscevano ed in quel silenzio il tempo per loro diventava eternità.

domenica 20 maggio 2012

19 Maggio, Mariella Nava a Parabiago d'Autore

Mariella Nava a Parabiago d'Autore "Grazie per sentirmi con la luce di dentro" è la stupenda frase che ieri Mariella Nava ha scritto sul libretto del mio CD e da cui parto per fotografare la serata di ieri, mentre sono ancora percorsa dal raggio della gioia che mi hanno trasmesso le note e le parole di questa persona di eccezionale valore artistico e umano. La cornice era la sala multiuso della biblioteca civica di Parabiago, un ambiente abbastanza intimo perché fossimo tutti vicini a Mariella anche fisicamente oltre che con il cuore; Poiché il concerto era gratuito io e la zia Antonella ci siamo mosse in anticipo per assicurarci un posto e non solo ci siamo riuscite, ma abbiamo seguito questo live dalla seconda fila, a poca distanza dal palco dove è salita Mariella insieme al suo pianoforte, al contrabbasso del suo musicista Sasà Calabrese e ad una piccola tastiera (Mariella ci ha promesso suoni vari e di qualità ma la tastiera non era d'accordo perché ha dato qualche problema con i cavi!). A rendere questo concerto diverso dalle aspettative e più difficile sono intervenuti due fatti imprevisti: il tragico attentato alla scuola di Brindisi della mattina, condannato all'inizio dall'assessore alla pubblica istruzione e da tutti noi, e quel dolore sbigottito doveva tanto più trafiggere la cantautrice tarantina; Mariella ha espresso disappunto e incapacità di comprendere un tale atto come avrebbe fatto qualunque persona di buonsenso o che tale desidera apparire, ma subito dopo ha esortato se stessa e tutti a non lasciarsi abbattere e come prima canzone ha eseguito "così è la vita", ricca di pura energia e serenità, dedicando alla vita l'intero spettacolo perché "così è la vita che ci riguarda con i suoi giorni imprevedibili, un dolore che non ritarda e una spia luminosa si accende". L'altra difficoltà è stata la laringite che a causa del clima ha colpito Mariella, per la quale arrivare alle note alte era un'impresa; ma più che questa sua fatica mi era evidente la sua semplicità nel riconoscere dall'inizio davanti a noi questo inconveniente che non dipendeva dalla sua volontà, nel chiederci scusa e spiegarci di aver tenuto la sua voce registrata come aiuto nelle parti più impegnative. Era supportata da immagini e basi, ma il suo pianoforte è stato protagonista in particolare in "come mi vuoi", preceduta dal ricordo delle illustri interpretazioni di Eduardo de Crescenzo e Mina che le provocano un comprensibile disagio quando la ripropone con la sua voce, e in "da domani" dedicata a tutti gli italiani, canzone nuova che non avevo ancora apprezzato come ieri nella sua melodia e nel testo entrambi originali e toccanti; il finale “ed è per questo che ancora nasce una canzone, per dirci quanto è più importante un’emozione” mi ha fatto sembrare meno ingenua l’idea che la musica possa essere una valida alleata del coraggio e costituire con esso un motore per riaccenderci e ripartire.. Il tempo mosso che Mariella ha cercato di vestire di musica nell'ultimo disco è stato proposto dal vivo anche con "i giovani del mondo", una delle canzoni più intelligenti a me note sull'argomento; l'ho cantata quasi a squarciagola per sottolineare che anche la mia esperienza può testimoniare la verità di quelle parole: è un pezzo scritto osservando che tutte le generazioni del mondo, pur nelle loro differenze, hanno in comune sogni e speranze e il desiderio di compiere passi per migliorare questa nostra realtà. Ogni canzone è stata introdotta dalla sua autrice ed interprete, che ha dimostrato come tutte siano tappe importanti del suo percorso musicale e personale e costituiscano, se non dei successi nel senso corrente, successi per lei e per la sua vita. Così ci ha presentato "questi figli" che raccoglie i pensieri e le ansie di una madre ma scritta nel 1986 quando Mariella era ancora figlia, spedita a Gianni Morandi che la interpretò entusiasta della penna di quella ragazza. "Tornare vivo" poi intitolata "notte americana" è stata invece cantata da Lucio Dalla e io l'ho ascoltata per la prima volta dalla sua autrice; il testo racconta di un uomo vivo ma che sente dentro di sé la morte per la mancanza del suo amore, e per questo chiede alla sua donna di restituirlo alla vita con un abbraccio. Ora naturalmente, dopo la morte di Dalla, a Mariella come a noi quelle parole suonano diversamente da quel 2000 in cui sono state scritte, ed abbiamo vissuto questo momento con notevole commozione. La serata è stata tutta all'insegna della canzone d'autore anche grazie alla presenza di altri due giovani musicisti: Giacomo Crot cui era affidato l'arduo compito di aprire il concerto, che ha presentato alcune sue canzoni di un genere melodico a me poco familiare e testi piuttosto complessi, ma sicuramente di alto livello; Patrizia Cirulli cantautrice affascinante e dalla voce calda, conosciuta da Mariella in occasione di concorsi musicali, che per primo ha presentato un brano su una donna vittima di un incidente sul lavoro. Sono stati toccati altri temi delicati e scottanti, come la lotta all'AIDS con la storia del malato contenuta in "piano inclinato" e la violenza sulle donne ad opera dei propri uomini con "in nome di ogni donna"; Mariella ci si accostava con l'umiltà e il coraggio a cui mi ha abituato, come chi concepisce il proprio mestiere di musicista anche come mettersi al servizio di ciò in cui crede e delle persone senza voce. Così a mio parere non si poteva definire lei nonostante la laringite, il calore e la convinzione erano quelli che ben conosciamo noi che la seguiamo da anni; verso la fine ha esplicitato la sua passione per i pezzi alti e grintosi, che coincidono con un non risparmiarsi nella sua vocazione di regalare emozioni cercando sempre di offrirsi al massimo. Mi viene solo un aggettivo per descrivere il suo modo di stare sul palco e di fronte a noi, era bellissima. Affrontava i suoi problemi vocali e quelli tecnici correndo qua e là per il palco con il sorriso, sceglieva onestamente di cambiare la scaletta alla ricerca di canzoni che avrebbe potuto donarci nella forma migliore, tranne nel caso dell’immancabile “spalle al muro” nella quale ci ha chiesto il nostro sostegno e mi sembra che sebbene non fossimo moltissimi ci siamo riusciti, e probabilmente quel coro si sarebbe alzato anche spontaneamente! Come bis Mariella ha scelto "la strada" ed io ho camminato con la mia voce su quelle note e soprattutto parole che sento scritte per me, specialmente ora che la mia strada si sta poco alla volta delineando, sempre più simile a quella notte che segue la sua corsa chiara verso la sua mattina. Il mio primo concerto di Mariella era terminato, ma con un po' di pazienza e di fortuna le emozioni già fortissime che mi aveva trasmesso sarebbero state coronate dalla realizzazione di un piccolo-grande sogno, sette anni dopo l'incontro all'auditorium di radio Italia e il suo memorabile epilogo. Mariella è tornata sul palco dopo pochi minuti dall'ultimo brano e il pubblico, formato quasi interamente da membri del fans club alcuni dei quali avevano macinato un certo numero di chilometri, si è radunato in piccola folla nella sua direzione. Molti di noi avevano con sé uno o più dischi da farle autografare, desideravamo un istante in più da conservare nella memoria in compagnia di Mariella e per questo eravamo disposti ad aspettare; io e la zia più di tutte perché eravamo le ultime ma l'attesa non mi creava alcun fastidio, era importante solo non aver niente a che fare con chi spinge e chi urla impazzito e ha niente da festeggiare. L'agitazione all'idea di parlare a Mariella si è fatta subito sentire e per reagire ho cominciato a strappare risate alla zia con battute sciocche (devo recuperare il mio neurone che è andato a farsi una passeggiata, altrimenti me la trovo davanti e non fiato! Ma come, a sedici anni ero più incosciente? Va bene, ce la posso fare). Non so quanto siamo rimaste in fila, come sette anni fa da un certo punto in poi mi giungeva la voce di Mariella e di nuovo percepivo quanto fosse deliziosa con tutti. Mi è sembrata comunque un'attesa breve e quando è arrivato il mio turno l'abbraccio di Mariella mi ha scaldato e ha rallentato i miei battiti che negli ultimi minuti erano troppo aumentati. Le ho prima di tutto ricordato il mio nome e che ci eravamo incontrate tempo fa e l'avevo ringraziata per il suo sito così ben costruito e accessibile... e contro ogni mia aspettativa anche lei mi ricordava! Le ho rivolto i miei complimenti per il concerto e ho rievocato con entusiasmo la sua apparizione al raduno clab di Claudio Baglioni di quello stesso 2005 in cui l'avevo conosciuta al programma serale di radio Italia. Le ho detto testualmente "hai fatto una Mezzaluna da annali" e lei sorridendo ha precisato "con la chitarra di Andrea Pistilli, è bravissimo e ora gira con Fiorella Mannoia"; altra sorpresa il fatto che anche per lei fosse stato un momento così importante da ricordarne volentieri e distintamente i particolari, per me è una delle pagine più ricche e meravigliose del libro della mia vita a tempo di musica! Nel frattempo Mariella ha finito di scrivermi sul libretto la frase che poi legge a voce alta "grazie per sentirmi con la luce di dentro" così pregnante nella bellissima sinestesia che contiene, e in risposta non mi è riuscito di dire altro se non un grazie a mia volta, sincero come sette anni fa. Mentre parliamo la zia ci fa una foto e poi Mariella stessa mi invita a prepararmi per un'altra in posa; sono ancora commossa dalla dolcezza con cui mi aiuta a posizionarmi e suggerisce alla zia dove scattare la foto per prenderci bene al centro, e mi rimarranno scolpiti nel cuore quei pochi secondi di noi abbracciate e sorridenti che durante lo scatto ci stringiamo appena l'una all'altra con infinita tenerezza. Ci salutiamo ringraziandoci di nuovo a vicenda e all'uscita la mia felicità è quasi totale estasi... Mariella, mi auguro di rivederti ancora per fermare un frammento del nostro tempo mosso nell'eternità di una vera emozione, e se possiamo non fra sette anni!

giovedì 17 maggio 2012

14 maggio, semplice e inspiegabile (a uno spettatore)

Ti scrivo senza conoscere il tuo nome né la tua voce e il tuo aspetto, anzi a dire la verità di te so soltanto una cosa: ieri sera ti trovavi dove mi trovavo io, cioè al concerto di Pacifico al teatro franco Parenti. Forse hai notato il mio sguardo vacuo quando ho volto il viso nella tua direzione, ma non so se hai fatto caso alla mia presenza tra tanta gente. Mi piacerebbe chiederti come e perché sei arrivato a questo concerto e cosa ti ha lasciato, ma più di tutto raccontarti quello che è stata per me la serata di ieri, perché mi sono sentita davvero una goccia in un oceano sconfinato quanto il Pacifico, ed ho bisogno che tu mi conceda qualche minuto per ascoltarmi e che mi dia una voce, mi faccia capire che hai condiviso una parte delle mie emozioni. Prima di entrare nei dettagli vorrei darti un’idea dello stato d'animo in cui io sono arrivata al teatro, ed a questo scopo, poiché non conosci la mia storia, ti riassumo brevemente la giornata di ieri, intensissima come spesso accade nella mia vita di studentessa universitaria: la mattina presto ho tenuto una lezione sulla disabilità ad un gruppo di aspiranti formatori aziendali, ricchissima di domande e riflessioni interessanti; subito dopo ho seguito due ore di storia romana, noiose quanto basta, sulla legione in età classica. Un pranzo veloce con alcune amiche prima delle prove del coro, un'ora di canti polifonici; poi le mie tre ore di lavoro volontario al centro culturale di Milano, diventate quattro grazie ad una spedizione alle poste con tanto di compilazione di ricevute di ritorno assegnatami all'ultimo minuto. Risultato, ero tutt’altro che a mente sgombra e avevo mezz'ora scarsa per prepararmi al concerto che avevo atteso con ardore e da cui mi aspettavo i fuochi d'artificio specialmente dopo quello che è successo lo scorso 12 aprile, quando ho ricevuto il regalo di un incontro con Gino Pacifico che non dimenticherò facilmente. Però, Tutta questa giornata era stata attraversata dal filo sottile di un pensiero, questa sera mi fermo. Ed era proprio quello che dovevo fare e che avrei fatto,, perché il nostro Pacifico non si impone, non rompe gli argini, ma entra quando gli lasciamo lo spazio e arriva piano piano agli angoli più profondi. Era vicino a noi pubblico caloroso della sua città, ho concordato pienamente con lui sul non avvertire la distanza che protegge gli artisti da quel contatto che li espone ad emozioni più forti. Sarebbero sufficienti i due aggettivi del titolo, che ho scelto in maniera non troppo originale, a descrivere l'aspetto saliente del concerto: semplice perché non c'erano scenografie mirabolanti ma i musicisti sul palco che con semplicità hanno suonato ed interpretato le canzoni; un gruppo affiatato, o almeno questa era l'impressione dall'esterno, strumenti ed effetti del disco “una voce non basta” scelti con cura a riempire di valore ogni singolo momento dello spettacolo, e Gino al centro della scena a dare unità e fascino all'insieme con la sua voce calda. Ma inspiegabile, non solo per la mia incapacità, ma anche perché per tutto il tempo non mi ha abbandonato la sensazione che mancasse qualcosa, non nel concerto ma in me e in come lo stavo vivendo; strano, a mille concerti mi è capitato di essere accompagnata per gentilezza da qualcuno che durante lo spettacolo è assente con i suoi pensieri, d'altra parte non posso pretendere che un altro si costringa a provare emozioni che non gli appartengono. Però ieri avevo un bisogno insistente di quella corrispondenza di sensazioni e di battiti, non so spiegarne il motivo ma è per questo che ora ho deciso di rivolgerti direttamente il mio racconto. Era come un niente, un millimetro che mi separava dal vivere una felicità quasi completa, come di sogno, eterea e senza definizione. Avrei voluto parlarti e sentire dalla tua voce che eri lì per Gino e che anche a te stava donando tesori che non riusciamo a misurare. È vero tuttavia che ci sono stati istanti in cui ero ferma in volo lieta e senza ombre,e non so se puoi credermi, più spesso quando Pacifico si diffondeva nei suoi interventi parlati che nelle canzoni… che vuoi farci, sarà una mia deformazione di letterata ma mi ha conquistato da subito il suo modo di usare le parole, sia quando seguiva i suoi testi scritti sia quando improvvisava. Che meraviglia per una ragazza della mia età entrare in un ricordo come quello della notte del 1969 davanti al televisore che si spegne formando una specie di spirale, pensando con la fantasia di un bambino di allora a come doveva apparire la faccia della Luna, con i suoi mari asciutti e i suoi crateri; a proposito, io i pigiamini che scoppiano non li ricordo per niente! La città non catturava gli sguardi come adesso, ho provato a calarmi in quella dimensione per qualche secondo e a recuperare una briciola di quella sana ingenuità, che difficilmente oggi sarebbe la stessa se al di sopra delle case si manifestasse improvvisa e splendente una seconda Luna, nuova e tutta da scoprire. La passeggiata attraverso Milano, tra le case e le insegne improbabili dei negozi della periferia, mi ha trasportato in una realtà che posso solo sfiorare, sia perché non vedo e mi perdo tutti questi dettagli, sia perché da quasi due anni abito in pieno centro e il panorama è piuttosto differente. Mi avrai visto quasi piangere dal ridere al momento di Smog, in quel gioco con il pubblico dove la parte più divertente a mio avviso era l'ironia di Pacifico nei confronti di se stesso (è l’unica canzone in cui non tenere le braccia conserte!). Con l’accompagnamento di questa canzone è solito presentare il gruppo (ma guardateci, siamo in 8, quindi andiamo avanti fino alle 3! Era una battuta ma fino a un certo punto, nel senso che raramente ho sentito presentare dei musicisti così diffusamente nelle loro qualità artistiche e umane (ma questo è solo l'inizio, poi leggerò il curriculum di ciascuno!). Le lettere S M O G prima pronunciate con la forza della rabbia, dopo due o tre tentativi di cui evidentemente il nostro mattatore non era soddisfatto; poi in un sussurro corale, anche qui riuscito dopo qualche titubanza, per la sorte dell'ambiente che a lungo andare conduce a un senso di dolorosa impotenza. Ho trovato preziosi i passaggi delle due ospiti, Cristina Marocco era emozionata e ricca di grazia come ha detto Pacifico nell’introdurla, ma anche di gratitudine per quel pubblico italiano per lei meraviglioso! Malika Ayane almeno per me non è stata proprio una sorpresa... ero al teatro Verdi tre anni fa, Pacifico prima del tour ha parlato di ospiti diversi a seconda delle città, e due più due fa quattro. L'ho apprezzata soprattutto su "verrà l'estate" eseguita in modo se possibile ancora più acustico che al Verdi, senza i campanelli e con un ruolo ugualmente centrale di piano e chitarra; in questa veste la canzone non perde la freschezza, ma ogni nota sembra essere al posto giusto nell'armonia semplice e piena di speranza che accompagna il testo. Non sono stata per niente a braccia conserte durante “Pacifico”, al Verdi l'avevo ascoltata per la prima volta con immenso piacere e qui l'ho cantata muovendomi a tempo di musica, perché in una nuova prima volta quel vortice di venti contrari, di cui l'oceano smisurato e incontrollabile è la metafora, si concentrava nel poco spazio della mia poltrona, ricreando nella mia fantasia l’impressione di esserne al centro come è capitato almeno una volta nella vita di ciascuno di noi. Simona Severini è stata instancabile nell'aggiungere il suo timbro limpido e robusto a brani cantati nelle versioni originali in duetto con gli artisti più vari. Si è alzata sola la voce di Pacifico, se ben ricordo, soltanto durante "in cosa credi” eseguita con un accompagnamento più essenziale che nel disco, chitarra e archi; mi ha stupito ilcalore che Gino ha trasmesso nella sua interpretazione, forse nell’originale prevale il vibrato e il colore deciso del timbro di Manuel Agnelli e perciò il contrasto mi è parso più forte. Altra sorpresa è stata la stessa “Semplice e inspiegabile”, da cui mi sono lasciata conquistare più che mai, grazie alla voce di Simona che dà più sostegno al brano rispetto a Cristina Donà, e alla tonalità in cui la voce di Pacifico sulle note basse arrivava a una profondità che trovo irresistibile; gli effetti degli archi davano un tocco in più di quella semplicità cristallina in cui si imbatte chi osserva nella sua realtà un paesaggio o il rapporto con una persona cara, così semplice da essere inspiegabile, cioè da non lasciarsi racchiudere in spiegazioni che peraltro non sono necessarie, basta uno sguardo libero e attento a coglierne la totalità e le sfumature. Sono forse noiosa, ma ci tengo a fissare quegli istanti per i quali proverò sempre una gratitudine autentica come quella gioia che ho faticosamente affidato a queste parole; consegnarli a te significa finalmente colmare quei vuoti d'aria di solitudine come una goccia sospesa nel vento, perché acquistino quella chiarezza che altrimenti non avrebbero e costruiscano insieme un'immagine di Gino sempre più precisa e inondata di una luce che va oltre la serata di ieri. Grazie dunque per ricevere queste mie istantanee ed avermele restituite più nitide, così semplici e inspiegabili.

domenica 15 aprile 2012

Recensione dell'album "Dentro ogni casa" di Pacifico

Considerazioni sull’album “Dentro ogni casa”
Quest’album mi ha rivelato un Pacifico in parte nuovo, con una voce nettamente migliorata nelle prestazioni (come dice lui stesso sta riuscendo a stanarla e pian piano fa capolino) e, per così dire, una doppia anima: mentre in alcuni pezzi come "tu che sei parte di me" e "verrà l'estate" predomina la melodia chiara e piacevole con la voce che si accorda con pianoforte o chitarra, a cui Pacifico ci ha abituato, in altri ("un ragazzo", "sembri una foglia") si ripetono poche note sempre uguali con l’effetto di avvicinare la musica al parlato, espediente tipico delle canzoni di argomento più grave e malinconico. Certamente per comprendere questo splendido lavoro sono necessari parecchi ascolti attenti, e non si può scindere la melodia dai testi insieme a cui è cucita, poiché aggiunge espressività alle parole ed a volte fornisce la chiave di interpretazione delle canzoni. Un suono di violini unito ad un tintinnio di bicchieri apre la canzone iniziale “Dove comincia tutto” e ci fa entrare da subito nell’atmosfera dell’album, dentro ogni casa che significa dentro ciascuno di noi, in un viaggio alla ricerca dell’innocenza prima, che ci accomunava tutti quando ancora non eravamo usciti nel vasto mondo; facile identificare questo passaggio con l’infanzia, ed infatti Pacifico inserisce varie immagini ad essa legate, “...i tuoi singhiozzi, le sbucciature,/ i guanti fradici a scavar la neve,/ un solo soffio per le candele”; periodo di incoscienza e di giorni felici dal quale però è naturale che usciamo e negli anni successivi ci è dato solo ricordare, magari con un po’ di nostalgia ma senza alcun rimpianto. E per tornare laggiù dove comincia tutto è necessario spingersi con lo sguardo molto in profondità nei propri ricordi, perché è da una grande distanza che vorremmo arrivare “giù dove sei sempre stato,/ prima di alzare intorno una montagna”. In questa canzone Pacifico dimostra di non essere schiavo della metrica, di darle importanza ma non eccessivamente, e di non sacrificare altri elementi per salvarla: nell’inciso, dove compare lui stesso nell'atto di sprofondarsi nel suo passato, le rime sono molto regolari, coppie di versi a rima baciata, mentre nelle strofe, che contengono lo scenario di vecchi oggetti e memorie da cui è circondato, non si può individuare uno schema rigido: le rime sono sostituite da assonanze (neve candele) o da una semplice affinità tra il suono delle parole nella stessa posizione. Questa libertà metrica si accentua in quei brani in cui il tono si fa più prosaico e vicino a quello di un racconto, senza un ritmo regolare; Pacifico non trascura di accompagnare a questi testi una melodia che trasmetta lo stesso effetto.
“Un ragazzo” è da entrambi i punti di vista canzone frammentata, asimmetrica nella successione dei temi che non si ripetono quasi mai allo stesso modo, caratterizzata da inconcinnitas, con quelle note uguali che si susseguono martellanti, e queste peculiarità ben si accordano con la situazione drammatica ed i personaggi immobili descritti nel testo nonché con le percussioni ed i fiati dell’arrangiamento, che forse non a caso in concerto è stato l’unico ad essere mantenuto quasi identico al disco. Da pochi minuti c’è stato un incidente stradale ed un ragazzo ha appena perso la vita; il suo corpo è disteso su un freddo tavolo di alluminio sotto gli occhi dei genitori e dell’autore/testimone, che osserva la scena come in disparte, da esterno. Non usa mezzi termini (“Un ragazzo è morto”), le sue parole sono mera descrizione o elencazione di azioni compiute dai personaggi o di oggetti, che lo inducono a far congetture su quella famiglia che non conosce e suscitano pensieri e considerazioni nella sua mente vigile. L’atteggiamento impietrito dei genitori lo fa riflettere su come la morte si rifiuti di farsi comprendere, almeno nei primi momenti in cui è proprio sotto lo sguardo di chi ne è toccato da vicino: sembra quasi una quiete e non spaventa, fanno molta più paura gli istanti in cui ancora sembra di udire il rumore dell’incidente e il corpo palpita di vita appesa ad un filo; saranno dei piccoli particolari, enumerati alla fine del brano, a dare a quei genitori la certezza della realtà terribile che mentre guardano il corpo del figlio non è ancora chiara: l’impossibilità di chiedere un suggerimento perché non si avrà risposta, il silenzio non interrotto dal suono del citofono o dal rumore della porta che lui sbatte uscendo di corsa incontro agli amici che lo aspettano, i suoi oggetti personali ormai inutili. A tali fatti i genitori non possono sfuggire, sono davanti a loro spietati e indubitabili; l’arte di Pacifico è riuscita a fare in modo che anche davanti a noi ascoltatori questi dettagli appaiano con la loro implacabile crudeltà e colpiscano la nostra immaginazione.
Per quanto riguarda l’aspetto più riflessivo e poetico dell’album, alcuni pezzi già nel titolo contengono una similitudine o metafora, e coerentemente i testi sono saturi di immagini che rendono le descrizioni evocative e mai banali, anche se ritraggono quadri di vita e sentimenti non certo irripetibili, anzi che tutti noi possiamo aver visto o sperimentato. Tra queste “Sembri una foglia” racconta lo stato di una ragazza in preda alla malinconia, che si è arresa alla prepotenza della vita: l’inizio è parlato ed è una descrizione dell’autore/testimone di ciò che vede, una ragazza dall’aspetto dimesso all’interno di una stanza spoglia che rappresenta tutto il suo ristretto orizzonte; la descrizione continua nella prima strofa cantata, ma l’autore intreccia dettagli visivi, movimenti ed espressioni della ragazza, e sue osservazioni personali suscitategli da essi; la struttura del brano in una sorta di climax ascendente culmina nell’inciso, o meglio in quel tema melodico che ritorna più spesso, composto interamente da immagini a cui Pacifico accosta quella ragazza: una foglia al vento, una vela leggera, una piccola barca alla deriva in mezzo ad una bufera, che tutte hanno in comune l’essere abbandonate all’arbitrio di una forza esterna. Nella seconda strofa Pacifico sposta lo sguardo contemporaneamente fuori dalla stanza e indietro nel tempo, per raccontare un passato in cui la ragazza riusciva ancora a vivere, pur se tormentata da un senso di insicurezza generale ed immotivata che perdurava, come sottolinea il continuo ricorso all’imperfetto; poi il brusco passaggio al passato prossimo, azioni momentanee ed improvvise, una caduta, una doccia bollente, uno strappo e poi più niente: quel momento ha segnato la rinuncia a qualunque decisione autonoma, ormai l’unico flusso certo in lei è lo scorrere del sangue nelle vene. Non è specificato cosa sia realmente accaduto, è costume di Pacifico scrivere canzoni che si adattano ad una pluralità di contesti. Verso la fine del brano si avverte con chiarezza l’antitesi tra dentro e fuori, tra spazi aperti e chiusi, tra il senso di resa totale in quella stanza e in quella persona e la vivacità della vita che resta chiusa fuori. In tutta la canzone è insistente il ricorso alle figure di suono (omeoteleuti, rime, assonanze) come se le parole contenessero una partitura autonoma e con un suo senso; nell’inciso le vocali e le consonanti sono quasi sempre le stesse mentre si moltiplicano le metafore (“sembri una foglia, una vela leggera”, “Sembri di sfoglia, di tela leggera”): sembra che l’autore voglia conservarne un ordito fonico fisso, variando la trama con pochi tocchi che però la modificano sensibilmente.
Pacifico non è nuovo a scrivere canzoni sul flusso del tempo, con successioni di ricordi che danno l’impressione di sfogliare un album di fotografie accompagnate però dalla musica e dai profumi di ogni momento. Tale è ad esempio “Lento”, insieme di pagine di vita rievocate nella calma di una notte autunnale, anche qui senza contorni definiti, ed il ripercorrerle gli dà una sensazione vaga e indistinta del passare del tempo perché “...quel che ho lasciato è qui con me”; questa frase non può non evocarne una simile, seguita subito dall’immagine dell’elefante che incede col suo passo ciondolante e dal profilo generoso descritto e paragonato a Pacifico stesso in “Dolci frutti tropicali”: “...e divento pesante quanto più mi allontano e quel che lascio mi è sempre vicino”. Pacifico sente infatti che ogni istante non solo aggiunge qualcosa alla sua memoria ma si aggiunge alla sua persona, e per questo anche quando lo avrà lasciato non gli sembrerà mai lontano, nonostante la corrente del tempo lo trascini avanti inesorabile (“...e si va”); no, mentre gli sfilano davanti quei sogni e ricordi imprecisi il tempo “è come un treno lento lento lento”. In questa canzone dalla melodia dolcissima ed intensa interpretazione, proprio perché le pagine sono imprecise ed accennate, ognuno di noi può scriverle del tutto o in parte come crede: in quante circostanze la strada davanti a noi ci è apparsa in salita, o abbiamo sentito scivoloso l’asfalto sotto i nostri piedi. Ma la frase che ritrae con sintesi mirabile e cogliendo dritto nel segno una situazione che più o meno consapevolmente tutti abbiamo vissuto è “...e confidarsi al cuore, ai maghi, ai santi, a pochi amici,/ chiedendo solo un istante in cui non manca niente”: un momento in cui ci sia dato di aprirci per condividere pensieri e sentirci aiutati e confortati, l’assaporare appieno la speranza di un rimedio duraturo ai nostri mali; è solo un istante ma non sappiamo dimenticarlo perché ci appare come il primo rimedio.
Da Pacifico stesso definita canzone al rallentatore è "senza respirare", con una melodia formata da una sequenza di poche note che si susseguono tranquille ripetuta quattro volte, e accompagnata solo dal suono del pianoforte e della tromba. L'atmosfera è quella giusta dei sogni, le parti strumentali con protagonista la tromba rendono vive le sensazioni trasmesse dalla voce e invitano a dilatarle nel tempo, l'impressione complessiva è di distesa tranquillità; ed infatti proprio di un sogno si parla, il più comune e più privato, potersi allontanare dal mondo e volare senza regole né pericoli in compagnia della persona amata, col fiato sospeso ma non per la tensione, bensì per l'immersione totale in quella gioia schietta che dà quasi un senso di apnea. Come tutti i sogni anche questo è destinato a svanire con il risveglio, ma allo sguardo dell'autore, che passa in rassegna la sua storia attraverso il volgere degli anni, la realtà non appare poi così distante da esso: "...ho soltanto noi due e lo dico senza respirare".
Di un sogno finito, che ormai senza incertezze si può chiamare illusione, racconta "nel fuoco acceso del cuore", canzone che ha per tema una storia ormai alle spalle ("un soffio sulla cenere"), ma la fiamma del sentimento è ancora viva nell'angolo più nascosto del cuore, tanto profondo da sfuggire al nostro controllo. Anche qui la descrizione della realtà è affidata alle strofe mentre l'inciso armonioso e ben orchestrato si ferma sullo stato del cuore: in entrambi gli incisi è significativa la sospensione che crea il periodo ipotetico incompleto fino a metà, soprattutto nel primo è come se quella sicurezza delle strofe nell'affermare che la storia è ormai conclusa venisse meno e prevalesse il desiderio di far rivivere quei sogni spenti in cui con l'amata si alzava al di sopra del paesaggio e degli uomini, come in "senza respirare"; nel secondo appare più chiaro il senso di smarrimento, come di un bambino in un locale buio, e si accenna alla persona amata che forse non ne è consapevole e riesce a vivere questo passaggio con maggiore distacco ("tu che non sai di restare/ nel fuoco acceso del cuore"). Si avverte chiaramente in questo brano, accompagnato dagli archi e da una batteria leggerissima, il progresso della vocalità di Pacifico, che fin dal primo ascolto risulta sorprendente.
La canzone che ha anticipato quest'album nelle radio è "tu che sei parte di me", con la partecipazione di Gianna Nannini, serena e di ascolto gradevole, il cui argomento è un amore libero, raccontato con delicatezza ma senza reticenze. Nelle strofe è contenuto in parte l'aspetto esteriore di quest'amore, e la spinta a viverlo senza paure né esitazioni, tagliando con il passato, confidando nel meglio per il futuro e concentrandosi sul presente ("butta via i ricordi, getta ogni cornice, lascia spazio alle cose a venire"). Come si vede la struttura dei periodi è semplice e immediata e spicca la presenza di numerosi imperativi; inoltre non mancano frasi nominali (l'iniziale "le tue braccia lunghe spalancate all'aria"), e i verbi della canzone sono per la maggior parte al presente. Il congiuntivo ottativo della seconda strofa "ti riuscissi a dire, riuscissi a spiegare" mostra quanto le emozioni che l'innamorato prova siano ineffabili e non si possa realizzare il suo desiderio di esprimerle a parole ("...e le parole cominciano male"). L'inciso descrive il carattere speciale e portatore di vita di questo amore, certo non straordinario ma che tuttavia non può avere eguali per chi ne è protagonista, poiché si lascia riconoscere da piccoli ma evidenti segni. L'ingresso di Gianna Nannini quasi nel finale, sebbene la sua voce abbia una potenza sconosciuta a quella di Pacifico, non appare improvviso né tantomeno in contrasto con il tono del resto del brano ma piuttosto complementare: esprime l'energia propria e naturale di un amore come quello che si sta rappresentando, ed essa si irradia così al di fuori del microcosmo dei due innamorati.
Una delle canzoni più indecifrabili è senza dubbio "spiccioli", ridotta al minimo in testo e melodia, formata quasi solo da frasi nominali o da singole azioni che si rispondono ma sono collegate da un filo sottile. Per illustrarne il tema e l'ambientazione scelgo di servirmi delle parole dello stesso suo autore, perché mi è difficile ricomporre questi piccoli flash, spiccioli appunto, meglio di quanto lui abbia fatto: "...Questa è una canzone di abbandono, di tregua. Due persone a fianco dopo aver fatto l'amore, il buio della stanza punteggiato solo dai led degli elettrodomestici. Sentire finalmente che a nulla bisogna resistere, lasciarsi andare, sentirsi minuscoli, ultimi, spiccioli appunto. Il brano è costruito intorno alla misteriosa e affascinante chitarra di Amedeo Pace (Blonde Redhead)". Da aggiungere soltanto che alla fine si nota nel testo un complicato gioco di allitterazioni ed omeoteleuti che creano effetti fonici di un'asperità innaturale e dunque quasi di sicuro non casuale; ma altrettanto volutamente il motivo di questa ricerca di suoni, associazioni e ripetizioni delle stesse parole in determinate posizioni nei versi, che hanno un ritmo regolaree incalzante grazie alla collocazione fissa degli accenti, rimane avvolto nel mistero. Ne siano un esempio questi versi: "Cerchi buchi spigoli,/ bagnate fughe angoli,/ sollevate porte e grate sollevate;/ rossa la tua gola grida,/ neanche una parola vola,/ spalancate porte e grate spalancate".
"verrà l'estate" èfin dalle prime note canzone che trasmette serenità, la melodia è soave e fresca così come le parole; il sentimento dominante è la speranza, l'attesa di un risveglio, ed infatti il tempo verbale più usato è il futuro indicativo, già presente nel titolo. Alcuni particolari come la frase dell'inciso "sempre ti aspetto" e quella che compare nella prima strofa e ritorna poi come conclusione "verrà l'estate senza avvisare", mostrano che l'evento che si aspetta ha un significato in più rispetto al ciclico succedersi delle stagioni: non si sa con precisione quando arriverà e sarà un'estate nuova, che non conoscerà ostacoli ("salterà i muri, le cancellate") e saprà riempire tutti gli angoli; potremo facilmente avvertire la sua presenza dal grano diventato biondo, dalla luce e dal calore del vento, ed attraverso i nostri sensi penetrerà nell'anima senza bisogno di esservi indotta ("e verrà a prenderti, a portarti fuori"). Il finale con gli ultimi accordi di chitarra su "verrà l'estate, senza avvisare" suggerisce un'idea di sospensione, lascia in attesa di qualcosa di positivo e salvifico che non tarderà ad arrivare. Pacifico sceglie di cantare questo brano in duetto con Malyka Ayane, che con la sua voce pastosa ed elegante fa vivere e vibrare il senso di rinascita che permea tutta la canzone.
L'album si conclude con il brano che gli dà il titolo, che ci trasporta in un'atmosfera notturna e nostalgica a partire dall'introduzione con pianoforte e cori e poi in modo più esplicito nella prima strofa ("nostalgia, malattia che si attende che riaccende che si prende, che non va più via"); Pacifico immagina di indossare un paio d'ali e volare non visto dentro ogni casa, osservando la vita che vi si svolge, lasciando e ritrovando un po' di sè in ciascuna ("quante piccole cose, quanti oggetti dimentico"). Il suo occhio riesce a scrutare i movimenti delle persone ed i loro milioni di pensieri liberi come colombe al di sopra dei tetti; l'orecchio arriva a cogliere le voci allegre dei bambini dai cortili ma anche i sussurri di uomini e donne nelle stanze più interne. Alla fine questa vita che immagina di vedere ed ascoltare è resa con piccole scene teatrali accompagnate dalla musica, contemporanee ma ben distinguibili l’una dall’altra: il rumore del traffico in strada, la voce di un uomo (l’attore Fabrizio Gifuni) che si rivolge a qualcuno che lo sente da lontano, un uomo e una donna che parlano sottovoce in un angolo ed altre ancora. Anche qui prevalgono di gran lunga le frasi nominali e sono pressoché assenti commenti dell'autore alle scene che ci pone di fronte, eccetto qualche semplice metafora in cui condensa le sue impressioni ("maglioni capovolti in fila, le braccia lunghe a gocciolare"); diverse sono le figure di suono, che sembrano avere soprattutto funzione di contorno e di completamento dell'apparato musicale. Queste le poche ma pregnanti parole di Pacifico che inserisco a chiosa della recensione di questa canzone e dell'intero album: "Desideravo avvicinarmi con le canzoni alle persone il più possibile, avrei voluto seguirle con un taccuino per annotare storie e emozioni. In maniera più pratica e discreta le ho cercate con lo sguardo e poi ho tentato di immaginare come vivessero o cosa provassero. In auto per le strade di Milano mi guardo in giro senza troppa curiosità, un po' perché essendo la mia città lo spettacolo è più usuale, un po' perché questa è una città fatta di corridoi per spostarsi rapidamente da una parte all'altra: non è fatta per esitare, meno che mai per passeggiare, è una città da attraversare... Così, per sfuggire a queste sponde strette e vicine e alla tentazione costante di tenere la fronte bassa cerco una breve via di fuga alzando lo sguardo e involontariamente mi trovo a cogliere piccoli istanti nella vita di altre persone.. Questi brani sono dieci occhiate furtive, dieci finestre aperte in cui guardare."
Alissa Peron
Nota: ho tratto le parole di Pacifico e qualche spunto per la recensione da quest’interessante articolo:
http://www.italianissima.net/articoli/articolo.asp?articolo=200911513129.txt

sabato 14 aprile 2012

Concerto di Pacifico (3 marzo 2009)

L’ultima nota della melodia si è spenta da poco, sono ancora piena delle vibrazioni di questa serata indimenticabile che ho trascorso nell’atmosfera calda del piccolo teatro Verdi a Milano, seduta di fronte ad un palco colorato da palloncini e coriandoli su cui è salito e rimasto due ore e mezzo un personaggio che in tutto mi ha affascinato, nell’interpretazione dei brani, nella loro riscrittura e nell’eloquio: ho riconosciuto in lui uno fra i più acuti uomini di spettacolo e musica che abbia udito esibirsi. É il Pacifico magnifico che conoscevo già sempre accurato nella scelta degli strumenti, che riproduce gli stessi effetti del disco, violini e tintinnio di bicchieri, in “Dove comincia tutto”, canzone che apre l’album “Dentro ogni casa” e ha aperto la serata, con la quale ci ha invitato ad entrare nel suo mondo come nell’album ci invita a riscoprire la parte più semplice e vera di noi stessi; riscrive invece “Sembri una foglia” per chitarra piano e violoncello, marcando la contrapposizione tra interno ed esterno, fondamentale già nella versione originale e scandita in essa dal testo e da un diverso tema melodico, anche con un suono più o meno dirompente della chitarra: dentro tutto è malinconia e immobilità, fuori la vita scorre e sprigiona la sua energia. Ma è un Pacifico ancora più magnifico perché nuovo, il suo carisma sta nel suo essere misterioso e pacato, mai sopra le righe, dalla voce profonda e quanto mai rasserenante anche nel parlare, cordiale come un caro amico, abbagliante nell’uso del lessico ricercato ma non affettato, ironico ed autoironico nel modo più sincero e genuino, senza esagerazioni e proprio per questo efficace. Infatti il pubblico della sua città ha risposto positivamente a questo spettacolo di elevata qualità ma anche brillante vivacità: era Pacifico stesso a scherzare sul fatto che le sue canzoni non sono quel che si dice rivitalizzanti! Ma lo era lui specialmente per lo spirito, che solleticava senza interruzione durante gli interventi parlati, con garbo e senza affaticarlo in riflessioni troppo pesanti e inadatte al contesto. All’inizio ci ha deliziato con una sua biografia in terza persona, parlando di se stesso come se si trattasse di un individuo strano e difficile da definire, da guardare con curiosità e perfino con un po’ di sospetto; sottolinea come il suo carattere apparisse fin dall'infanzia raccolto e meditabondo, di una calma inusitata e in contrasto con il fermento di quegli anni (è nato nel 1964, quando già si preparavano le rivolte studentesche di poco successive). La canzone che ha seguito il primo capitolo di questo racconto è stata “l’incompiuta”, in cui Pacifico racchiude quel poco che sa del percorso della sua vita: sa di avere giorno dopo giorno cancellato il dipinto dell’innocenza che ha ricevuto appena nato, e che dopo ogni vetta raggiunta se ne presenta una più alta, e che la sua vita, per quanto aumenti l’esperienza, resterà un’opera incompiuta. Uno degli interventi che mi hanno più toccato e commosso è stato quello in cui Pacifico ha letto una lettera della sua professoressa di italiano delle superiori (finzione letteraria? Forse, ma poco importava), che gli scriveva dopo molti anni di assenza di contatti avendo appreso dai giornali che il suo ex allievo era ormai musicista; rievoca momenti di gioia e di inquietudine condivisi con lui, pochi ricordi ma vivi nella sua mente, e riassume il cambiamento ma anche l’identità di Pacifico con quel se stesso di molti anni prima, sempre riflessivo ma più impacciato e titubante nei confronti della vita: senza dubbio tratti che li accomunano sono l’abilità con la penna (l’insegnante quando correggeva i temi lasciava il suo per ultimo, come ci si conserva per la fine la parte centrale della pizza!) ed una timidezza che non ha nulla a che vedere con la ritrosia e che ho trovato incantevole. É proprio questo continuare a vivere come fosse sempre in pericolo, cosa che lo induce a non sentirsi né mostrarsi divo sul palco, che rende quest’autore quello che possiamo apprezzare, silenzioso e gentile, capace di cucire note e parole ricche di tante e tali sfumature da non permettere di distinguerne i contorni, così da potersi adattare a svariati contesti e personalità. Ne è prova il fatto che il pubblico era vario quanto ad età e tipologia di spettatori, dagli amici agli studenti alla stampa, e che quasi tutte le canzoni sono state rivisitate nell’arrangiamento sfruttando le risorse del live. “Verrà l’estate” è stata suonata solo con piano chitarra e campanelli, che sembravano richiamarci a godere delle sensazioni piacevoli che trasmette, e durante l’esecuzione ha fatto la sua comparsa Malika Aiane, che vi ha aggiunto classe e ha dato vita a quell’ideale di speranza e rinnovamento connesso con il ritorno dell’estate, scopo per cui è stata scelta per interpretare questo brano in duetto con il suo autore nell’album “Dentro ogni casa”. Pacifico sente ancora che gli appartengono brani da lui scritti per altri, perché non solo li ha ricantati ma ha dato loro un significato all'interno del concerto ed in qualche caso ne ha raccontato in breve la storia: "Stringimi le mani" scritta per Gianni Morandi è stata preceduta dal divertente aneddoto di un sms ricevuto mentre era al cinema e a cui all'inizio non aveva dato peso, convinto com'era che si trattasse di uno scherzo dei suoi amici buontemponi e non della richiesta di scrivergli una canzone da parte di uno dei pilastri della musica italiana! "Smog" fu scritta per Celentano ma da lui rifiutata, e cantando le strofe Pacifico ci ha chiesto di esprimere tutto il suo rancore urlando a gran voce le lettere SMOG a tempo di musica! La canzone conclusiva del concerto è stata opportunamente la stupenda "le mie parole" regalata a Bersani: le parole sono state la linfa vitale dello spettacolo, e chi meglio di lui potrebbe testimoniare il loro potenziale alla fine di una serata come questa? Quest'uomo/autore non ama gli schemi rigidi in nessun caso, e lo ha ben dimostrato: non c'era un ordine riconoscibile nelle canzoni, nello svolgimento della serata, nella sua stessa biografia: l'ordine seguiva il flusso dei pensieri ed era perciò libero anche se non arbitrario, perché nulla sembrava né poteva essere casuale; Pacifico sa rendere netti i confini tra questi concetti, che spesso appaiono così simili da confondersi. Ho invidiato moltissimo lo spettatore che ha avuto il privilegio di salire sul palco e prendere con Pacifico un caffè preparato per l'occasione, buona abitudine italiana/campana, il giusto tramite per portare alla canzone "caffè" ed un atto che comunemente compiamo al mattino quando ci svegliamo e che anche lui compie perché la sua è per molti versi un'esistenza qualunque. Ho invidiato anche i numerosi spettatori, quasi la metà del pubblico in sala, che sono saliti sul palco alla fine del concerto, forse amici e conoscenti che potevano incontrarlo non fugacemente ma come persone a lui legate; quanto ho desiderato avvicinarmi a chi aveva saputo darmi tanto, non so cosa avrei detto, magari mi sarei limitata ad un saluto ed una stretta di mano, ma volevo significare che io c'ero e che quello che ho provato stasera resterà un ricordo da far scorrere quando il tempo sembrerà "lento".

venerdì 13 aprile 2012

Incontro indimenticabile con Pacifico

é difficile sia racchiudere in poche parole quanto è successo oggi alla Fnac di via Torino, sia tentare di descrivere con precisione i toni, le sfumature e le corde toccate da quella voce calda che ho avuto la fortuna di ascoltare flettersi in note e parole da vicino, anzi da vicinissimo. Che un cantante da me così amato come Pacifico presentasse il suo nuovo disco alla Fnac alle 18 di oggi, e che non ci fosse nessun ostacolo alla mia presenza all'evento, è stata una sorpresa che mi ha fatto attendere questa giornata carica di gioia e di fiducia: conosco bene questo personaggio perché ne seguo le vicende artistiche da sei anni e soprattutto ho assistito tre anni fa ad un suo concerto e l'avevo trovato affascinante, ma nel senso originario del termine, cioè mi sono sentita sotto l'effetto di un incantesimo seguendo il flusso delle sue parole e melodie. Oggi lo stesso fascino mi ha catturato fin dall'inizio, ma sapevo che il contesto era più intimo ed avrei potuto mettermi pazientemente in coda per un autografo e, con un po' di audacia e di fortuna, scambiare qualche battuta con lui... Con queste intenzioni oggi ho raggiunto il secondo piano della Fnac ben un'ora e mezza prima delle 18, orario in cui era previsto l'inizio dello spettacolo, e ciò è valso per me e il mio papà due splendidi posti in prima fila! Alle 17 circa viene portata in sala la tastiera e poco dopo fa la sua comparsa Pacifico in persona; lo intercettiamo prima che inizino le prove per una foto, io ero lontanissima dall'aspettarmelo e per qualche breve istante, come spesso mi accade, l'eccitazione mi ha fatto arrossire e tolto le parole. Ho stretto la mano delicata di Gino e mi sono presentata, piacere, Alissa; il mio nome l'ha colpito e incuriosito e me ne ha chiesto l'origine, io ho risposto che è tratto da un romanzo e lui ha scherzato "sono io l'ignorante", subito lui, cordiale e spiritoso come lo ricordavo. Abbiamo sorriso insieme per le foto ed il filmato che resteranno a ritrarre quel momento e ci siamo salutati in attesa di ritrovarci più tardi; io ancora stentavo a credere di essermi tanto avvicinata a lui così presto, ma per questa sera avevo ricevuto solo la prima scarica di adrenalina! Più intensamente di prima, con i posti migliori assicurati e un'immagine indelebile già scolpita nella mente ho trascorso l'altra ora e un quarto di attesa; tutti abbiamo dovuto lasciare la sala perché si portassero dentro gli strumenti necessari e si svolgessero le prove dei suoni, e alle 18, quando ormai tutto era pronto, le porte sono state riaperte ed abbiamo riguadagnato le nostre sedie. Pacifico fa il suo ingresso pochi minuti dopo accompagnato da un applauso e subito comincia l'incanto: la stessa garbata ironia ed autoironia che avevo apprezzato al teatro Verdi, la squisita genuinità e modestia nel raccontare com'è nato il disco corale "una voce non basta" e come ormai Pacifico sia abituato ad un clima di condivisione con gli altri non solo nel suo lavoro. Ha confermato questa sua volontà anche stasera conducendo la presentazione in forma di dialogo, sollecitando più volte le nostre domande tra un brano e l'altro. Dopo il consueto silenzio imbarazzato è stato rotto il ghiaccio e gli sono state poste curiosità su vari argomenti, per esempio sugli artisti con cui ha duettato nel disco, sulla sua nuova vita a Parigi e sul suo rapporto con la scrittura musicale ora che da diversi anni è tra i cantautori più raffinati del panorama italiano. Ha risposto con gentilezza e sincerità, raccontando incontri precedenti con gli artisti che ha poi invitato a partecipare al suo progetto, spiegandoci che non sente ancora completamente avvenuto il suo trasferimento a Parigi ("Sono a metà strada, diciamo a Ginevra!"), e che ora si sente in una fase di maturità nella composizione, dichiarandosi sprovvisto delle competenze tecniche come musicista per colpa di una terribile insegnante di pianoforte ("Sono stato un chitarrista da spiaggia fenomenale, tutto ad orecchio!") ma instancabile nel cercare belle frasi e ritornelli per le sue melodie. Quando ha imbracciato la chitarra per regalarci la prima canzone "A nessuno" ne è uscita una sorprendente versione acustica, semplice ma non spoglia, che ho cantato sottovoce sentendo i brividi. I brani successivi sono stati eseguiti insieme al piano di Giovanni Guerretti ed alla voce limpida e corposa della giovane Simona Severini. Continuava l'alternanza di musica e scambio con il pubblico e un'idea cominciava a farsi strada nella mia mente: io di solito in queste situazioni sono timidissima nonostante non mi manchino le domande e le considerazioni, ma oggi era diverso perché tutto stava andando alla grande, ero a circa due metri da Pacifico, l'avevo incrociato prima del previsto, perché non intervenire? I battiti mi erano accelerati di parecchio, ma dopo la seconda canzone ho raccolto il coraggio per alzare la mano e parlare nel microfono; ho sottolineato e chiesto di approfondire l'aspetto che più mi ha colpito e mi interessa del nuovo album, cioè la quantità di canzoni che si concentrano sui passaggi tra luce ed incompleta oscurità del mattino e delle prime ore della notte, è un album insomma formato in gran parte da albe e notturni. Certo, in queste condizioni è facile abbandonarsi alle riflessioni più intime e personali, ma soprattutto la vita di ciascuno, qualunque ruolo o mestiere svolga alla luce, è simile a quella degli altri e dunque anche quella dello stesso Pacifico non è distante dalla nostra. Dopo aver scherzato sulla troppa intelligenza della domanda egli ha risposto focalizzandosi su questo secondo aspetto, che peraltro avevo richiamato partendo da altre sue interviste; ha precisato che non era un suo proposito dedicare tante canzoni all'alba e alla notte ma ci si era trovato, come non aveva intenzione di inserirne due sull'estate ("Forse questa è stata una pecca stilistica"). Tuttavia la notte e il mattino sono le fasi in cui tutti noi lui compreso abbiamo gli stessi pensieri e compiamo le stesse azioni: svegliarsi e darsi uno sguardo nello specchio ancora addormentati, fare progetti sulla giornata che sta per cominciare senza sapere mai con certezza cosa ci aspetti davvero, osservare un paesaggio solitario di montagna sotto il cielo stellato e sentirsi un piccolo punto nell'universo. Ha ribadito quanto ai suoi occhi la sua esistenza sia comune e simile alla nostra, ricordando per contrasto un'intervista di Madonna che affermava di essere una persona come tante e, poco dopo, di non aver mai cucinato un piatto in vita sua! Questa risposta è stata la conferma di ciò che avevo intuito dalle canzoni stesse e da alcuni momenti del concerto a teatro, in particolare quello in cui ha chiamato sul palco uno spettatore ed hanno bevuto insieme un caffè, come lui ed ognuno di noi fa tutte le mattine da buon italiano. Altra energia mi aveva invaso e il prosieguo dello spettacolo non poteva che essere un crescendo in cui quelle canzoni, precedute da un'essenziale introduzione, mi venivano incontro e mi svelavano angoli e sensi nuovi benché le conoscessi quasi a memoria. In "second moon" Pacifico ci trasmette i suoi ricordi della notte dello sbarco sulla Luna, le immagini quasi fotografiche degli adulti davanti al televisore a tubo catodico e in particolare le zie che discutono di quegli astronauti ripiegando le tovaglie e spezzettando i fagiolini per il giorno dopo davanti ai suoi occhi curiosi da bambino di cinque anni che non capiva la portata degli eventi di quella notte. Ora per destare tale meraviglia ed attenzione la Luna deve fare i numeri, oscurarsi come durante le eclissi o mostrarsi tanto luminosa tra le stelle da sembrare il direttore d'orchestra della notte; ecco perché Pacifico ipotizza la comparsa di una seconda Luna e prova a raffigurarsi le reazioni di grandi e bambini di fronte ad essa, chiedendosi se cambierebbero o sarebbero le stesse. Non include "Strano che non ci sei" "nello sparuto gruppo delle canzoni allegre" ed è vero che è malinconica, ma a me da subito sia la musica sia alcune frasi del testo avevano suscitato l'idea di una malinconia non del tutto negativa; questa sera ne ho capito meglio il motivo, perché racconta certamente della perdita e quindi dell'assenza di una persona cara, ma nello stesso tempo della sua presenza. Pacifico si è descritto mentre fa una telefonata o prende una bottiglia di vino proprio come ai tempi più felici accanto ad un affetto così importante, che dunque sembra non allontanarsi dal suo quotidiano oltre che dai suoi pensieri e dalla sua memoria. Nel finale ho compreso l'ampio respiro di "infinita è la notte" pensandola come un volo sulla città, e ho notato una volta di più quanto Pacifico sappia accordare melodie e testi: quale miglior conclusione di quelle note lente ed imponenti che rappresentano l'immensità di un paesaggio notturno visto dall'alto ma impossibile da abbracciare con lo sguardo, com'è inafferrabile il tutto per la nostra mente. Alle ultime note del live sono seguite subito quelle del disco, il giusto sottofondo al momento degli autografi; io avevo già tra le mani il mio CD a cui far porre il timbro unico del suo autore ed interprete e mentre aspettavo il mio turno sono stata di nuovo colta dall'emozione: non avvertivo in modo distinto lo scorrere dei minuti né le voci intorno e mi sentivo piuttosto accaldata, ma dovevo controllarmi per aggiungere un'altra preziosissima perla al tesoro di questa serata. Quando è toccato a me Pacifico mi ha chiamata per nome, abbiamo discusso ancora brevemente sulla mia domanda e sulla risposta più o meno dignitosa, e non ho smesso un attimo di stupirmi per la dolcezza e la modestia dell'artista che avevo di fronte. Ho espresso gratitudine a Samuele Bersani per aver per primo scoperto e valorizzato il suo talento come cantautore, e la commozione che avevo provato durante il festival di Sanremo ascoltando dal teatro Ariston Adriano Celentano e Gianni Morandi cantare la sua bellissima "ti penso e cambia il mondo" con tutto il pubblico in piedi come una sola entità; Pacifico ha vissuto queste sensazioni da casa, ma era chiaro che anche per lui erano state forti nonostante l'umile timidezza con cui reagisce quando gli rammento cosa ha creato la sua penna. Infine ci scambiamo un abbraccio e un saluto e mi restituisce il CD, e una volta fuori dalla sala scopro finalmente cosa ha scritto sul retro del libretto: "Per Alissa. Grazie per la tua attenzione e delicatezza. A presto, Gino de Crescenzo Pacifico". A te un oceano di grazie, Pacifico a dir poco magnifico!