domenica 15 aprile 2012

Recensione dell'album "Dentro ogni casa" di Pacifico

Considerazioni sull’album “Dentro ogni casa”
Quest’album mi ha rivelato un Pacifico in parte nuovo, con una voce nettamente migliorata nelle prestazioni (come dice lui stesso sta riuscendo a stanarla e pian piano fa capolino) e, per così dire, una doppia anima: mentre in alcuni pezzi come "tu che sei parte di me" e "verrà l'estate" predomina la melodia chiara e piacevole con la voce che si accorda con pianoforte o chitarra, a cui Pacifico ci ha abituato, in altri ("un ragazzo", "sembri una foglia") si ripetono poche note sempre uguali con l’effetto di avvicinare la musica al parlato, espediente tipico delle canzoni di argomento più grave e malinconico. Certamente per comprendere questo splendido lavoro sono necessari parecchi ascolti attenti, e non si può scindere la melodia dai testi insieme a cui è cucita, poiché aggiunge espressività alle parole ed a volte fornisce la chiave di interpretazione delle canzoni. Un suono di violini unito ad un tintinnio di bicchieri apre la canzone iniziale “Dove comincia tutto” e ci fa entrare da subito nell’atmosfera dell’album, dentro ogni casa che significa dentro ciascuno di noi, in un viaggio alla ricerca dell’innocenza prima, che ci accomunava tutti quando ancora non eravamo usciti nel vasto mondo; facile identificare questo passaggio con l’infanzia, ed infatti Pacifico inserisce varie immagini ad essa legate, “...i tuoi singhiozzi, le sbucciature,/ i guanti fradici a scavar la neve,/ un solo soffio per le candele”; periodo di incoscienza e di giorni felici dal quale però è naturale che usciamo e negli anni successivi ci è dato solo ricordare, magari con un po’ di nostalgia ma senza alcun rimpianto. E per tornare laggiù dove comincia tutto è necessario spingersi con lo sguardo molto in profondità nei propri ricordi, perché è da una grande distanza che vorremmo arrivare “giù dove sei sempre stato,/ prima di alzare intorno una montagna”. In questa canzone Pacifico dimostra di non essere schiavo della metrica, di darle importanza ma non eccessivamente, e di non sacrificare altri elementi per salvarla: nell’inciso, dove compare lui stesso nell'atto di sprofondarsi nel suo passato, le rime sono molto regolari, coppie di versi a rima baciata, mentre nelle strofe, che contengono lo scenario di vecchi oggetti e memorie da cui è circondato, non si può individuare uno schema rigido: le rime sono sostituite da assonanze (neve candele) o da una semplice affinità tra il suono delle parole nella stessa posizione. Questa libertà metrica si accentua in quei brani in cui il tono si fa più prosaico e vicino a quello di un racconto, senza un ritmo regolare; Pacifico non trascura di accompagnare a questi testi una melodia che trasmetta lo stesso effetto.
“Un ragazzo” è da entrambi i punti di vista canzone frammentata, asimmetrica nella successione dei temi che non si ripetono quasi mai allo stesso modo, caratterizzata da inconcinnitas, con quelle note uguali che si susseguono martellanti, e queste peculiarità ben si accordano con la situazione drammatica ed i personaggi immobili descritti nel testo nonché con le percussioni ed i fiati dell’arrangiamento, che forse non a caso in concerto è stato l’unico ad essere mantenuto quasi identico al disco. Da pochi minuti c’è stato un incidente stradale ed un ragazzo ha appena perso la vita; il suo corpo è disteso su un freddo tavolo di alluminio sotto gli occhi dei genitori e dell’autore/testimone, che osserva la scena come in disparte, da esterno. Non usa mezzi termini (“Un ragazzo è morto”), le sue parole sono mera descrizione o elencazione di azioni compiute dai personaggi o di oggetti, che lo inducono a far congetture su quella famiglia che non conosce e suscitano pensieri e considerazioni nella sua mente vigile. L’atteggiamento impietrito dei genitori lo fa riflettere su come la morte si rifiuti di farsi comprendere, almeno nei primi momenti in cui è proprio sotto lo sguardo di chi ne è toccato da vicino: sembra quasi una quiete e non spaventa, fanno molta più paura gli istanti in cui ancora sembra di udire il rumore dell’incidente e il corpo palpita di vita appesa ad un filo; saranno dei piccoli particolari, enumerati alla fine del brano, a dare a quei genitori la certezza della realtà terribile che mentre guardano il corpo del figlio non è ancora chiara: l’impossibilità di chiedere un suggerimento perché non si avrà risposta, il silenzio non interrotto dal suono del citofono o dal rumore della porta che lui sbatte uscendo di corsa incontro agli amici che lo aspettano, i suoi oggetti personali ormai inutili. A tali fatti i genitori non possono sfuggire, sono davanti a loro spietati e indubitabili; l’arte di Pacifico è riuscita a fare in modo che anche davanti a noi ascoltatori questi dettagli appaiano con la loro implacabile crudeltà e colpiscano la nostra immaginazione.
Per quanto riguarda l’aspetto più riflessivo e poetico dell’album, alcuni pezzi già nel titolo contengono una similitudine o metafora, e coerentemente i testi sono saturi di immagini che rendono le descrizioni evocative e mai banali, anche se ritraggono quadri di vita e sentimenti non certo irripetibili, anzi che tutti noi possiamo aver visto o sperimentato. Tra queste “Sembri una foglia” racconta lo stato di una ragazza in preda alla malinconia, che si è arresa alla prepotenza della vita: l’inizio è parlato ed è una descrizione dell’autore/testimone di ciò che vede, una ragazza dall’aspetto dimesso all’interno di una stanza spoglia che rappresenta tutto il suo ristretto orizzonte; la descrizione continua nella prima strofa cantata, ma l’autore intreccia dettagli visivi, movimenti ed espressioni della ragazza, e sue osservazioni personali suscitategli da essi; la struttura del brano in una sorta di climax ascendente culmina nell’inciso, o meglio in quel tema melodico che ritorna più spesso, composto interamente da immagini a cui Pacifico accosta quella ragazza: una foglia al vento, una vela leggera, una piccola barca alla deriva in mezzo ad una bufera, che tutte hanno in comune l’essere abbandonate all’arbitrio di una forza esterna. Nella seconda strofa Pacifico sposta lo sguardo contemporaneamente fuori dalla stanza e indietro nel tempo, per raccontare un passato in cui la ragazza riusciva ancora a vivere, pur se tormentata da un senso di insicurezza generale ed immotivata che perdurava, come sottolinea il continuo ricorso all’imperfetto; poi il brusco passaggio al passato prossimo, azioni momentanee ed improvvise, una caduta, una doccia bollente, uno strappo e poi più niente: quel momento ha segnato la rinuncia a qualunque decisione autonoma, ormai l’unico flusso certo in lei è lo scorrere del sangue nelle vene. Non è specificato cosa sia realmente accaduto, è costume di Pacifico scrivere canzoni che si adattano ad una pluralità di contesti. Verso la fine del brano si avverte con chiarezza l’antitesi tra dentro e fuori, tra spazi aperti e chiusi, tra il senso di resa totale in quella stanza e in quella persona e la vivacità della vita che resta chiusa fuori. In tutta la canzone è insistente il ricorso alle figure di suono (omeoteleuti, rime, assonanze) come se le parole contenessero una partitura autonoma e con un suo senso; nell’inciso le vocali e le consonanti sono quasi sempre le stesse mentre si moltiplicano le metafore (“sembri una foglia, una vela leggera”, “Sembri di sfoglia, di tela leggera”): sembra che l’autore voglia conservarne un ordito fonico fisso, variando la trama con pochi tocchi che però la modificano sensibilmente.
Pacifico non è nuovo a scrivere canzoni sul flusso del tempo, con successioni di ricordi che danno l’impressione di sfogliare un album di fotografie accompagnate però dalla musica e dai profumi di ogni momento. Tale è ad esempio “Lento”, insieme di pagine di vita rievocate nella calma di una notte autunnale, anche qui senza contorni definiti, ed il ripercorrerle gli dà una sensazione vaga e indistinta del passare del tempo perché “...quel che ho lasciato è qui con me”; questa frase non può non evocarne una simile, seguita subito dall’immagine dell’elefante che incede col suo passo ciondolante e dal profilo generoso descritto e paragonato a Pacifico stesso in “Dolci frutti tropicali”: “...e divento pesante quanto più mi allontano e quel che lascio mi è sempre vicino”. Pacifico sente infatti che ogni istante non solo aggiunge qualcosa alla sua memoria ma si aggiunge alla sua persona, e per questo anche quando lo avrà lasciato non gli sembrerà mai lontano, nonostante la corrente del tempo lo trascini avanti inesorabile (“...e si va”); no, mentre gli sfilano davanti quei sogni e ricordi imprecisi il tempo “è come un treno lento lento lento”. In questa canzone dalla melodia dolcissima ed intensa interpretazione, proprio perché le pagine sono imprecise ed accennate, ognuno di noi può scriverle del tutto o in parte come crede: in quante circostanze la strada davanti a noi ci è apparsa in salita, o abbiamo sentito scivoloso l’asfalto sotto i nostri piedi. Ma la frase che ritrae con sintesi mirabile e cogliendo dritto nel segno una situazione che più o meno consapevolmente tutti abbiamo vissuto è “...e confidarsi al cuore, ai maghi, ai santi, a pochi amici,/ chiedendo solo un istante in cui non manca niente”: un momento in cui ci sia dato di aprirci per condividere pensieri e sentirci aiutati e confortati, l’assaporare appieno la speranza di un rimedio duraturo ai nostri mali; è solo un istante ma non sappiamo dimenticarlo perché ci appare come il primo rimedio.
Da Pacifico stesso definita canzone al rallentatore è "senza respirare", con una melodia formata da una sequenza di poche note che si susseguono tranquille ripetuta quattro volte, e accompagnata solo dal suono del pianoforte e della tromba. L'atmosfera è quella giusta dei sogni, le parti strumentali con protagonista la tromba rendono vive le sensazioni trasmesse dalla voce e invitano a dilatarle nel tempo, l'impressione complessiva è di distesa tranquillità; ed infatti proprio di un sogno si parla, il più comune e più privato, potersi allontanare dal mondo e volare senza regole né pericoli in compagnia della persona amata, col fiato sospeso ma non per la tensione, bensì per l'immersione totale in quella gioia schietta che dà quasi un senso di apnea. Come tutti i sogni anche questo è destinato a svanire con il risveglio, ma allo sguardo dell'autore, che passa in rassegna la sua storia attraverso il volgere degli anni, la realtà non appare poi così distante da esso: "...ho soltanto noi due e lo dico senza respirare".
Di un sogno finito, che ormai senza incertezze si può chiamare illusione, racconta "nel fuoco acceso del cuore", canzone che ha per tema una storia ormai alle spalle ("un soffio sulla cenere"), ma la fiamma del sentimento è ancora viva nell'angolo più nascosto del cuore, tanto profondo da sfuggire al nostro controllo. Anche qui la descrizione della realtà è affidata alle strofe mentre l'inciso armonioso e ben orchestrato si ferma sullo stato del cuore: in entrambi gli incisi è significativa la sospensione che crea il periodo ipotetico incompleto fino a metà, soprattutto nel primo è come se quella sicurezza delle strofe nell'affermare che la storia è ormai conclusa venisse meno e prevalesse il desiderio di far rivivere quei sogni spenti in cui con l'amata si alzava al di sopra del paesaggio e degli uomini, come in "senza respirare"; nel secondo appare più chiaro il senso di smarrimento, come di un bambino in un locale buio, e si accenna alla persona amata che forse non ne è consapevole e riesce a vivere questo passaggio con maggiore distacco ("tu che non sai di restare/ nel fuoco acceso del cuore"). Si avverte chiaramente in questo brano, accompagnato dagli archi e da una batteria leggerissima, il progresso della vocalità di Pacifico, che fin dal primo ascolto risulta sorprendente.
La canzone che ha anticipato quest'album nelle radio è "tu che sei parte di me", con la partecipazione di Gianna Nannini, serena e di ascolto gradevole, il cui argomento è un amore libero, raccontato con delicatezza ma senza reticenze. Nelle strofe è contenuto in parte l'aspetto esteriore di quest'amore, e la spinta a viverlo senza paure né esitazioni, tagliando con il passato, confidando nel meglio per il futuro e concentrandosi sul presente ("butta via i ricordi, getta ogni cornice, lascia spazio alle cose a venire"). Come si vede la struttura dei periodi è semplice e immediata e spicca la presenza di numerosi imperativi; inoltre non mancano frasi nominali (l'iniziale "le tue braccia lunghe spalancate all'aria"), e i verbi della canzone sono per la maggior parte al presente. Il congiuntivo ottativo della seconda strofa "ti riuscissi a dire, riuscissi a spiegare" mostra quanto le emozioni che l'innamorato prova siano ineffabili e non si possa realizzare il suo desiderio di esprimerle a parole ("...e le parole cominciano male"). L'inciso descrive il carattere speciale e portatore di vita di questo amore, certo non straordinario ma che tuttavia non può avere eguali per chi ne è protagonista, poiché si lascia riconoscere da piccoli ma evidenti segni. L'ingresso di Gianna Nannini quasi nel finale, sebbene la sua voce abbia una potenza sconosciuta a quella di Pacifico, non appare improvviso né tantomeno in contrasto con il tono del resto del brano ma piuttosto complementare: esprime l'energia propria e naturale di un amore come quello che si sta rappresentando, ed essa si irradia così al di fuori del microcosmo dei due innamorati.
Una delle canzoni più indecifrabili è senza dubbio "spiccioli", ridotta al minimo in testo e melodia, formata quasi solo da frasi nominali o da singole azioni che si rispondono ma sono collegate da un filo sottile. Per illustrarne il tema e l'ambientazione scelgo di servirmi delle parole dello stesso suo autore, perché mi è difficile ricomporre questi piccoli flash, spiccioli appunto, meglio di quanto lui abbia fatto: "...Questa è una canzone di abbandono, di tregua. Due persone a fianco dopo aver fatto l'amore, il buio della stanza punteggiato solo dai led degli elettrodomestici. Sentire finalmente che a nulla bisogna resistere, lasciarsi andare, sentirsi minuscoli, ultimi, spiccioli appunto. Il brano è costruito intorno alla misteriosa e affascinante chitarra di Amedeo Pace (Blonde Redhead)". Da aggiungere soltanto che alla fine si nota nel testo un complicato gioco di allitterazioni ed omeoteleuti che creano effetti fonici di un'asperità innaturale e dunque quasi di sicuro non casuale; ma altrettanto volutamente il motivo di questa ricerca di suoni, associazioni e ripetizioni delle stesse parole in determinate posizioni nei versi, che hanno un ritmo regolaree incalzante grazie alla collocazione fissa degli accenti, rimane avvolto nel mistero. Ne siano un esempio questi versi: "Cerchi buchi spigoli,/ bagnate fughe angoli,/ sollevate porte e grate sollevate;/ rossa la tua gola grida,/ neanche una parola vola,/ spalancate porte e grate spalancate".
"verrà l'estate" èfin dalle prime note canzone che trasmette serenità, la melodia è soave e fresca così come le parole; il sentimento dominante è la speranza, l'attesa di un risveglio, ed infatti il tempo verbale più usato è il futuro indicativo, già presente nel titolo. Alcuni particolari come la frase dell'inciso "sempre ti aspetto" e quella che compare nella prima strofa e ritorna poi come conclusione "verrà l'estate senza avvisare", mostrano che l'evento che si aspetta ha un significato in più rispetto al ciclico succedersi delle stagioni: non si sa con precisione quando arriverà e sarà un'estate nuova, che non conoscerà ostacoli ("salterà i muri, le cancellate") e saprà riempire tutti gli angoli; potremo facilmente avvertire la sua presenza dal grano diventato biondo, dalla luce e dal calore del vento, ed attraverso i nostri sensi penetrerà nell'anima senza bisogno di esservi indotta ("e verrà a prenderti, a portarti fuori"). Il finale con gli ultimi accordi di chitarra su "verrà l'estate, senza avvisare" suggerisce un'idea di sospensione, lascia in attesa di qualcosa di positivo e salvifico che non tarderà ad arrivare. Pacifico sceglie di cantare questo brano in duetto con Malyka Ayane, che con la sua voce pastosa ed elegante fa vivere e vibrare il senso di rinascita che permea tutta la canzone.
L'album si conclude con il brano che gli dà il titolo, che ci trasporta in un'atmosfera notturna e nostalgica a partire dall'introduzione con pianoforte e cori e poi in modo più esplicito nella prima strofa ("nostalgia, malattia che si attende che riaccende che si prende, che non va più via"); Pacifico immagina di indossare un paio d'ali e volare non visto dentro ogni casa, osservando la vita che vi si svolge, lasciando e ritrovando un po' di sè in ciascuna ("quante piccole cose, quanti oggetti dimentico"). Il suo occhio riesce a scrutare i movimenti delle persone ed i loro milioni di pensieri liberi come colombe al di sopra dei tetti; l'orecchio arriva a cogliere le voci allegre dei bambini dai cortili ma anche i sussurri di uomini e donne nelle stanze più interne. Alla fine questa vita che immagina di vedere ed ascoltare è resa con piccole scene teatrali accompagnate dalla musica, contemporanee ma ben distinguibili l’una dall’altra: il rumore del traffico in strada, la voce di un uomo (l’attore Fabrizio Gifuni) che si rivolge a qualcuno che lo sente da lontano, un uomo e una donna che parlano sottovoce in un angolo ed altre ancora. Anche qui prevalgono di gran lunga le frasi nominali e sono pressoché assenti commenti dell'autore alle scene che ci pone di fronte, eccetto qualche semplice metafora in cui condensa le sue impressioni ("maglioni capovolti in fila, le braccia lunghe a gocciolare"); diverse sono le figure di suono, che sembrano avere soprattutto funzione di contorno e di completamento dell'apparato musicale. Queste le poche ma pregnanti parole di Pacifico che inserisco a chiosa della recensione di questa canzone e dell'intero album: "Desideravo avvicinarmi con le canzoni alle persone il più possibile, avrei voluto seguirle con un taccuino per annotare storie e emozioni. In maniera più pratica e discreta le ho cercate con lo sguardo e poi ho tentato di immaginare come vivessero o cosa provassero. In auto per le strade di Milano mi guardo in giro senza troppa curiosità, un po' perché essendo la mia città lo spettacolo è più usuale, un po' perché questa è una città fatta di corridoi per spostarsi rapidamente da una parte all'altra: non è fatta per esitare, meno che mai per passeggiare, è una città da attraversare... Così, per sfuggire a queste sponde strette e vicine e alla tentazione costante di tenere la fronte bassa cerco una breve via di fuga alzando lo sguardo e involontariamente mi trovo a cogliere piccoli istanti nella vita di altre persone.. Questi brani sono dieci occhiate furtive, dieci finestre aperte in cui guardare."
Alissa Peron
Nota: ho tratto le parole di Pacifico e qualche spunto per la recensione da quest’interessante articolo:
http://www.italianissima.net/articoli/articolo.asp?articolo=200911513129.txt

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